Rivoluzione Liberale

Editoriali,articoli e rassegna stampa di cultura liberale.

Thursday, June 21, 2007

Aria di elezioni di Augusto Minzolini


A Montecitorio l’aria è quella delle legislature che rotolano inesorabilmente verso la loro fine. E’ una puzza inconfondibile quella di un Parlamento che marcisce, e la riconoscono tutti. In uno dei corridoi Umberto Ranieri, diessino alla presidenza della Commissione Esteri con buone entrature al Quirinale, lo ammette senza particolari emozioni: «I più avvertiti di noi sono consapevoli che si rischia di tornare alle urne già nella primavera del 2008». «Ma è chiaro che si va al voto tra un anno! - gli fa eco sull’altro versante l’esperto ex-dc di Forza Italia, Angelo Sanza -. E’ sicuro come il sole che nasce al mattino. Tutti si stanno posizionando, da Rifondazione a Mastella». Appunto, l’aria di urne già condiziona i partiti. «La discesa in campo di Veltroni - osserva l’ex-direttore dell’Unità, Giuseppe Caldarola - è un segnale lampante. Dentro il nascente Partito democratico hanno paura che si vada alle urne e giocano l’unica carta che hanno. Lui non poteva dire di no: era fuggito già da segretario dei ds alla vigilia di un voto, non poteva farlo un’altra volta. E, magari, l’ultima operazione sarà quella di portarlo a Palazzo Chigi in autunno per togliere l’handicap Prodi e dargli una spinta in più per le urne». Lo stesso ragionamento che Pierferdinando Casini, dopo aver partecipato l’altra sera a Ballarò insieme a Massimo D’Alema, ha proposto ieri a Giulio Tremonti: «Ad ottobre Rutelli, D’Alema, Fassino e Marini chiederanno a Prodi di lasciare il posto a Veltroni. Lui farà un governo demagogico con dieci ministri e andremo alle urne a primavera...».Già, l’aria è quella. Sono pochi quelli che hanno dei dubbi. E in fondo è stata proprio questa consapevolezza da parte di tutti gli interlocutori che ha reso l’incontro di ieri tra il Capo dello Stato e la delegazione dell’opposizione guidata da Silvio Berlusconi meno incandescente delle previsioni. Il colloquio, infatti, è servito a fare piazza pulita di tutte le possibili alternative al voto anticipato. Napolitano si è nascosto dietro ad una frase di rito significativa: «Le elezioni non ci possono essere fino a quando c’è una maggioranza in Parlamento e il governo riesce a legiferare». Ma ha anche paragonato l’attuale legislatura a quella del ‘92, quando scoppiò Tangentopoli: una legislatura - va ricordato - che durò appena due anni. Berlusconi, Fini, Bossi e Rotondi da parte loro hanno spiegato che non ci sarà nessuna collaborazione fino a quando questo governo («o un altro governo di sinistra decidano loro» ha precisato Berlusconi) non avrà nel suo programma le elezioni nella primavera del 2008. Da ieri, quindi, governi del presidente o istituzionali sono stati cancellati ufficialmente dall’agenda politica.In questo modo è venuta meno anche l’ultima possibilità di mischiare le carte, di rivoluzionare uno «schema» che aldilà delle intenzioni di molti rischia di portare davvero il paese di nuovo alle urne tra un anno. «Quelli del centro-sinistra - si lamenta spesso in questi giorni Casini - sono dei dilettanti allo sbaraglio. Non hanno capito che l’unico modo per evitare le urne era quello di fare la crisi ora e formare un governo del Presidente». «Per questa maggioranza - osserva Giorgio La Malfa, altro orfano del governo istituzionale - posso parafrasare una frase di Tocqueville: “Per l’oggi, per una poltrona, sacrificano il domani”». Mentre Piero Testoni, deputato di Forza Italia che ha seguito da vicino la prima Repubblica, paragona addirittura la mancata crisi all’errore storico di Craxi: «Il centro-sinistra non ha fatto la crisi e ne pagherà le conseguenze come Bettino che non volle andare alle elezioni anticipate nel ‘91».Il motivo è semplice. La strategia della resistenza che Romano Prodi ha imposto agli altri capi del centro-sinistra per dare il via libera a Veltroni, fa acqua da tutte le parti: non ci si può arroccare quando si dispone solo di un voto di maggioranza al Senato. E’ come «la ligne Maginot» con i carri armati tedeschi alle spalle. E i carri armati, i killer del governo, sono tutte quelle forze della maggioranza che ormai seguono una loro logica che punta in tempi più o meno diversi alla crisi. Prendiamo ad esempio Clemente Mastella. Ieri il suo capogruppo alla Camera, Mauro Fabris, ha parlato a Montecitorio come se fosse un esponente dell’opposizione. E’ uscito dall’aula con un’espressione alquanto colorita nei confronti del presidente del Consiglio: «Mi ha rotto i coglioni». Ebbene: i propositi di Mastella sono chiari a tutti meno, a quanto pare, ai capi del centro-sinistra. Se saranno raccolte le firme per il referendum e la Consulta darà il via libera (con il clima che c’è nel paese è difficile immaginare il contrario) il Guardasigilli la prossima primavera mollerà Prodi e passerà con il centro-destra per andare alle elezioni per evitare il voto su un quesito che aprirebbe la strada al bi-partitismo in Italia. Si tratta di piani che sono tutto fuorchè segreti. «E’ una prospettiva molto probabile - ammette il sottosegretario alla Difesa, Marco Verzaschi -. Io lo farei anche il referendum ma Clemente lo considera esiziale. Ed è convinto che bisogna passare con il centro-destra perchè la sinistra quando rischia di perdere è terchia nel dare posti in Parlamento. Come nel 2001».Un altro che sente profumo di elezioni è Antonio Di Pietro. Non per nulla fa di tutto per ricompattare il proprio elettorato. E ogni giorno deve sentirsi la rampogna dei suoi che lo pregano di tagliare i ponti con Prodi. «C’è mezzo partito che gli ripete - racconta il capo della sua segreteria, Stefano Pedica - di uscire dal governo perchè altrimenti lo faranno altri e noi rischiamo di restare con il cerino in mano. Lui finora resiste». Già, ma fino a quando? Oggi intanto il ministro andrà a firmare il referendum di Mario Segni, cioè la vera miccia che potrebbe far saltare la legislatura. Quindi Mastella, Di Pietro, ma non è finita. I parlamentari della Svp sono sul punto di lasciare la maggioranza, hanno la base in rivolta contro il governo e rischiano di perdere alle prossime elezioni per la prima volta la provincia di Bolzano. Ed ancora, Lamberto Dini è sempre più nervoso. E sull’altro fronte il Professore per tenere buona Rifondazione deve pagare ogni giorno un prezzo sempre più salato: ieri a Bertinotti e ai suoi ha dato su un piatto d’argento la testa del capo della Polizia, Gianni De Gennaro. E questo due settimane dopo che per calmare i ds aveva decapitato il vertice della Guardia di Finanza.Tutti segnali di debolezza che dimostrano quanto il destino della legislatura sia segnato. Ed è stato proprio questo l’argomento che D’Alema e Marini hanno usato per convincere un riottoso Veltroni a scendere in campo: «E’ probabile - è stato il ragionamento di entrambi al sindaco di Roma - che fra un anno andremo alle urne e il centro-sinistra non può arrivarci disarmato».

From: "La Stampa", June 21, 2007

Monday, June 18, 2007

Tre punti contro l'apparente antipolitica di Elio Antonucci


Ormai l’antipolitica è l’unico verbo declinato nell’italica penisola. E’ additata a tanti fattori, come denunciato dal libro di Stella e Rizzo, diventato la Bibbia dell’antipolitica rispettabile e ben pensante. Tuttavia quello che non si vuole vedere, per convenienza o miopia coatta, è che l’antipolitica intesa come avversione al ceto politico e ad un certo modo di fare politica ha una ragione di fondo: il mal governo della sinistra. I così detti progressisti additano proprio all’antipolitica imperante il calo dell’affluenza alle ultime elezioni amministrative e la pesante sconfitta rimediata dalla compagine governativa. Non vogliono vedere la realtà effettuale delle cose. E’ troppo dolorosa per loro. Il calo dell’affluenza e la sconfitta elettorale altro non sono che le conseguenze delle fallimentari politiche economiche e sociali della sinistra. Altro che anti politica!
La gente si sente oppressa da un fisco invadente e sproporzionato che non ha pari nel mondo occidentale (nemmeno nei Paesi scandinavi tanto presi ad esempio ed in cui tra l’altro la socialdemocrazia ha pesantemente perso le ultime elezioni), ha, come sempre, difficoltà ad arrivare alla fine del mese ed è spaventata dalla sempre maggiore spinta migratoria che, sovente, si traduce in un aumento dei reati nelle periferie delle grandi città. Non è quindi sorprendente che la Lega e Forza Italia abbiano riportato una sonante vittoria nel Nord del Paese (ma anche nel Sud le percentuali sono bulgare per il partito di Berlusconi). A poco serviranno le scampagnate del signor Presidente del Consiglio sul Po se non a rimediare gli ennesimi fischi. La politica della sinistra è nel marasma. Ma l’opposizione non sta meglio, dilaniata da scontri ed invidie personali. E’ giunto il tempo di tornare tra la gente. Torniamo a parlare del calo delle tasse come primo obiettivo da raggiungere. E poi si passi alla sicurezza nelle periferie e alla lotta dura, durissima all’immigrazione clandestina. Si giunga infine all’approvazione del piano di rinnovo infrastrutturale del Paese. Un programma di soli tre, fondamentali punti. Politica liberale contro l’aria fritta di 281 pagine scitte da un manipolo di pagliacci. Ci basta.

Thursday, June 14, 2007

Verso il Quirinale di Davide Giacalone

Sulla strada per il Quirinale i capi del centro destra si sono accorti che chiedere le elezioni servirebbe solo a sentirsi rispondere di no. Un no fondato, visto che il governo fa pena, ma c’è, che la maggioranza si regge con lo sputo, ma c’è. E visto che Napolitano aveva chiesto, meglio dire imposto, la riforma del sistema elettorale, che non c’è. Salire al Colle, però, è utile e Casini commette un errore a non andare. Vediamo perché.Le elezioni anticipate non si possono chiedere, ma ci vorrebbero. La legislatura è morta quando Prodi scelse la via dell’autosufficienza e della chiusura. Il governo è bloccato ed ingessa il Parlamento. La maggioranza nel Paese non l’ha mai avuta, ed ora l’ha abbondantemente persa. Sostituire Prodi con un governo depoliticizzato serve a nulla, perché le scelte che è obbligatorio fare sono politicissime, sia sui temi economici che su quelli sociali, come su quelli istituzionali ed esteri. Un governo di quel tipo finisce sempre con il volere durare, magari coperto da quelli che costruiscono castelli di sabbia su idee indefinite di grande centro. Le scelte sagge, insomma, possono essere due: o un governo che coalizzi le forze più grandi, per fare riforme importanti, o le elezioni. La prima cosa non è esclusa solo dal diniego del polo, ma anche dalla guerra in corso nella sinistra.Come si fa ad andare alle elezioni? Si convocano i referendum elettorali. Se si raccolgono le firme poi sarà solo la Corte Costituzionale a poterli fermare, ed è questo un tema da sottoporre al Quirinale, affinché comprenda che la libertà di giudizio deve essere totale, diversamente acuendosi una crisi istituzionale che nell’ovazione dei finanzieri a Speciale ha mostrato la gravità delle crepe. I referendum sono indigeribili per un sistema di coalizioni, e la loro convocazione spinge all’esigenza di votare prima. Si dirà che i partiti più piccoli, sia della maggioranza che dell’opposizione, sono contrari. Ragionino: qualsiasi seria riforma elettorale li penalizzerebbe, mentre votare subito è per loro conveniente. Si opporrà Prodi, ma son problemi suoi.A Napolitano va sottoposto il tema delle garanzie costituzionali, evidenziando il rischio di convulsioni troppo a lungo protratte, ed il Presidente sarebbe tenuto a qualcosa di più del cortese ascoltare.

Saturday, June 09, 2007

Democrazia sinistra


Mai così freddi i rapporti Italia - Usa


Si sono salutati, si sono detti arrivederci, si sono scambiati ringraziamenti e anche qualche regalino. Forse quello di Putin a Bush sullo scudo antimissili, certo quello di Bush a Blair sul global warming, l’ostentata cordialità di Sarkozy per Putin. Fra Romano Prodi e George Bush niente, e forse soltanto perché debbono rivedersi fra poche ore a Roma. Ma così evidentemente non è. I rapporti fra Italia e Usa si stanno avvicinando al loro punto più basso, o forse l’hanno già oltrepassato. Non è un’opinione ufficiale e neppure ufficiosa, attribuibile agli ultrà ideologici della Amministrazione americana, lo scrive, fra l’altro, la Washington Post, un quotidiano autorevole e non certo sospetto di eccessivo entusiasmo «bushista». Anzi, un giornale di «sinistra» vicino da sempre al Partito democratico di opposizione, la voce che costrinse Richard Nixon alle dimissioni e strillò duramente contro Ronald Reagan.Ma nel 2007 la Washington Post racconta la storia come la vede la maggioranza degli americani. Parla di «relazioni fredde», «brutto momento». Ed enumera alcuni dei perché. «Bush arriva oggi a Roma per reincontrarsi con un presidente del Consiglio che ha dovuto pregare ministri del suo governo di evitare di partecipare alle proteste pubbliche contro l’uomo della Casa Bianca». «Arriva poche ore dopo che si è aperto a Milano un processo contro la Cia, in una forma senza precedenti, con ventisei agenti Usa imputati (anche se latitanti) sotto l’accusa di aver violato le leggi italiane in occasione del rapimento di Abu Omar, un sospetto terrorista. Un soldato americano è sotto processo a Roma per l’uccisione in Irak di Nicola Calipari». Arriva poco dopo che la sua amministrazione ha espresso pubblicamente il proprio disappunto per il rifiuto dell’Italia di aumentare il proprio contingente in Afghanistan e di aggiornare le «regole di impegno» che ne limitano grandemente l’efficacia militare.Sono solo alcuni esempi che il quotidiano fa e da cui estrae un giudizio ancor più preoccupato che severo. Constata che da quando è insediato «il governo di centrosinistra ha criticato tutte le principali iniziative politiche americane» e non può fare a meno di notare che si è addirittura capovolto il tono delle relazioni rispetto ai cinque anni in cui è stato presidente del Consiglio Silvio Berlusconi alla guida di una coalizione di centrodestra. L’aneddotica diplomatica rivela e conferma il progressivo allontanamento di sostanza. «Berlusconi - scrive la Washington Post - compì il suo primo viaggio alla Casa Bianca nel 2001, cinque mesi dopo aver assunto l’incarico di premier. Prodi invece deve ancora arrivare in America, nonostante abbia incontrato Bush in un paio di occasioni a margine di incontri internazionali». Berlusconi «è stato un forte alleato degli Stati Uniti nella guerra in Irak, Prodi ha ritirato l’Italia dal conflitto non appena si è insediato».Sono venute alla luce, in questi mesi, divergenze di fondo, di metodo, «ha creato fratture la strategia italiana di negoziare con i rapitori in presenza della cattura di ostaggi». Ha confermato una difformità globale di impostazione di giudizi: Washington «ha lasciato cadere la proposta del ministro degli Esteri Massimo D’Alema per una conferenza internazionale sull’Afghanistan, D’Alema ha disapprovato la scelta di Washington di non mettere in discussione il sistema di difesa antimissile all’interno del Consiglio Nato-Russia».La conclusione: Bush arriva a Roma nel peggior momento possibile. Non è mai successo nei rapporti fra Stati Uniti e Italia che la visita dell’uomo della Casa Bianca coincidesse con tanti ostacoli, incomprensioni, equivoci, contrasti di strategie e di interessi fra i governi di due vecchi alleati. La constatazione non equivale a una sorpresa: il mondo politico americano non si è mai consentito illusioni sulle difficoltà di mantenere con la nuova dirigenza di Roma il livello di cordialità e di fiducia del quinquennio precedente, ma anche dei rapporti con la maggior parte dei governi italiani in mezzo secolo abbondante di alleanza salda e proficua.

From: "Il Giornale", June 9, 2007

Tuesday, June 05, 2007

A breve torniamo

In questo periodo gli impegni sono stati tanti, troppi. Un certo distacco dalla politica ha animato la maggioranza degli italiani. Ma dopo il caso Telecom, la spesa pubblica folle, una Finanziaria disastrosa, la crescita più bassa in Europa e l'ultimo, drammatico, episodio Visco - Guardia di Finanza non si può rimanere in silenzio. Rivoluzione Liberale sta tornando. Ancora un po' di pazienza. Viva la libertà.

Monday, April 23, 2007

Intervista ad Andrè Glucksmann


«È stata una festa commossa, felice. Con un momento forte, indimenticabile: quando Simone Veil, 80 anni a luglio, sopravvissuta ai campi di concentramento, ha abbracciato Sarkozy e lo ha ringraziato per essere riuscito a sconfiggere, una volta per tutte, Jean-Marie Le Pen». André Glucksmann ieri sera ha partecipato al ritrovo di rue d'Enghien, il quartiere generale della campagna elettorale dove alle 21.30 Nicolas Sarkozy ha festeggiato la vittoria con i collaboratori più stretti e gli amici che lo hanno sostenuto. Con un articolo pubblicato su Le Monde e sul Corriere della Sera, a fine gennaio il filosofo aveva preso posizione a favore di Sarkozy: una mossa sorprendente per un intellettuale francese, categoria incline ad alzare il sopracciglio quando si parla del leader della destra. Una mossa che in Francia ha fruttato a Glucksmann molte critiche, e che ora il nouveau philosophe degli anni Settanta, passato coerentemente dalle battaglie per i diritti dei boat people a quelle per la libertà dei ceceni, rivendica con pacatezza e convinzione.
C'è una punta di gioia personale, di rivincita, nella soddisfazione per la vittoria di Sarkozy? «Sono contento che la campagna di demonizzazione di Sarkozy non abbia avuto la meglio. Tutta la sinistra, e quindi anche Ségolène Royal, cerca di frenare la sua corsa all'Eliseo puntando sugli insulti, sulla campagna di delegittimazione, suggerendo che sia un uomo non degno, isterico, pericoloso per la democrazia e magari anche incline a tendenze eugenetico-naziste: la polemica scatenata dalle frasi sull'origine genetica della pedofilia, per esempio, è ingiustificata, Sarkozy non ha detto niente di mostruoso. Ci sono state le caricature, i manifesti imbrattati con i baffetti di Hitler, questa strategia ha fallito ma vedo che comunque la sinistra, che non ha altri mezzi, cerca di riunirsi sotto la formula Tout sauf Sarkozy, chiunque tranne Sarkozy, anche per il secondo turno».
Da dove nasce la vittoria di Sarkozy? «Prima di tutto, dal ritorno prepotente della politica. Quello che ha modificato completamente la situazione è che la Francia ha votato, massicciamente, con un interesse, una passione, un entusiasmo che contrariamente a quello che il luogo comune poteva suggerire non è andato a vantaggio della sinistra. È un elemento fondamentale, straordinario, perché significa che la democrazia partecipativa non è morta, e non credo affatto a quelli che la giudicano semplicemente trasformata in demagogica. L'affluenza alle urne è un sospiro di sollievo per tutti, bisogna esserne felici».
Come è riuscito a convincere undici milioni di francesi ad andare a votare per lui? «Con lo stile. Lo stile è tutto. E lo stile di Nicolas Sarkozy è il coraggio. È un modo di dire le cose come stanno, quel modo che la sinistra degrada a demagogia e populismo, ma non lo è affatto. Sarkozy ha il coraggio di vedere la realtà, di indicare i problemi. La sinistra di Ségolène Royal, con il suo atteggiamento consensuale, rassicura ma lascia le questioni immutate, anzi le aggrava. La Royal gioca sull'assenza di conflitti, e demonizza chi invece ha il coraggio e il senso di responsabilità di farsene carico».
Sarkozy si scaglia di continuo contro il «pensiero unico» francese. «È quello che io chiamo "la polizia delle parole". Lo detestano perché non usa strani eufemismi, ma non offrono alcuna alternativa credibile a parte l'ipocrisia».
Non crede che il buon risultato di Ségolène Royal, la prima donna a raggiungere il secondo turno delle presidenziali, sia comunque un progresso per le donne? «Mi dispiace, non riesco a vedere la questione in questa prospettiva. Adoro Angela Merkel, mi piacciono le sue idee e le sue azioni politiche, la sua dura esperienza sotto il regime comunista della Germania Est contribuisce a renderla una leader mille volte più intelligente di Gerhard Schröder, per esempio. Ma la adoro, appunto, non perché è donna. Credo che tutti, anche i politici, andrebbero giudicati sulla base delle loro idee e azioni, e non del sesso».
Alcuni sondaggi davano la Royal traballante, invece è passata al secondo turno e ha ancora buone chance. «Sullo sfondo, comunque, vedo consolidarsi una tendenza che è in atto da decenni nella politica francese, e cioè la diminuzione dei voti complessivi della sinistra. È in calo costante perché ha perso la sua base operaia e popolare, e non perché il partito comunista è sparito, o perché il fronte nazionale le ruba i voti. Le Pen stavolta è andato malissimo, comunque l'insieme dei voti della sinistra è più o meno sempre quello. Ecco perché non ho mai fatto allusione alla psicologia, al carattere personale di Ségolène Royal. Fa quel che può, all'interno di un vuoto concettuale che riguarda tutta la sinistra».
Quale previsione fa per il secondo turno? «Non so, dipende anche da quel che faranno gli elettori di Bayrou, che potrebbero dividersi tra Sarkozy e Royal più o meno a metà. Per adesso, con Simone Veil, sono felice che Sarkozy sia riuscito a distruggere l'opera pluridecennale di Mitterrand e Chirac, che hanno sempre alimentato il Fronte nazionale per piegarlo ai loro interessi e danneggiare l'avversario. Sarkozy è stato il primo a rompere con

Acqua calda ma di sinistra di E. Galli Della Loggia


Dopo che da almeno una trentina d'anni moltissimi altri vanno ripetendo le stesse cose, Gadi Luzzatto Voghera scopre, oggi, che esiste — pensa tu — un Antisemitismo a sinistra (così s'intitola infatti il suo libro appena uscito da Einaudi). Naturalmente egli evita accuratamente qualsiasi accenno al fatto che sullo stesso argomento anche in Italia sono comparsi non pochi libri. Nulla. Stando alle sue pagine lui è il primo che scopre e parla del fenomeno. Perché ovviamente lui non è come quegli altri, che magari non erano neppure di sinistra. Lui invece no, lui è di sinistra: e si sa che per la sinistra tutte le verità della storia (che spesso lei stessa si è ostinata a negare per decenni) cominciano a esistere solo quando, in genere dopo mezzo secolo e sempre presentandole come strabilianti novità, anche lei finalmente le scopre. Quando cioè, ormai, come nel caso di Luzzatto Voghera, si tratta della scoperta dell'acqua calda.

From "Corriere della Sera", April 23, 2007

Thursday, April 05, 2007

Cavaliere laico. Ora non ci deluda


È un vero peccato che le parole più sincere e più impegnative (nel bene e nel male) di Silvio Berlusconi resistano, in genere, solo poche ore prima di venir seppellite da rettifiche, messe a punto, smentite e accuse alla stampa di aver travisato il pensiero del nostro. È un peccato per tutto il discorso pubblico, intendiamo dire. Ma pure, se ci è lecito dirlo, per Berlusconi. Che, quando parla senza lasciarsi troppo condizionare dalla (comprensibile) esigenza di tenere assieme quel che resta della Casa delle libertà, farà anche delle gaffes, e però spesso dice cose che molti pensano, a destra e a sinistra, ma nessuno ha il coraggio, se volete la semplicità d'animo, di affermare a viso aperto.Chiediamo scusa per la lunga premessa. Ma ci è necessaria per esprimere la speranza che almeno stavolta Berlusconi faccia un'eccezione, e tenga botta. Nella tempesta suscitata dal nuovo presidente della Cei a proposito di Dico, pedofilia e incesto, le parole più chiare, più semplici, con ogni probabilità più comprensibili da parte della grande maggioranza dell'opinione pubblica, ma a quanto pare meno pronunciabili a destra come a sinistra, le ha dette lui. Eccole. «La Chiesa è libera di esprimere le proprie opinioni, ma anche i cittadini sono liberi di comportarsi secondo coscienza e intelletto, visto che il nostro è uno Stato laico». Ovvietà? Altrove forse sì, anzi, sicuramente sì. In Italia, proprio no. Al punto che (ci perdoni il Cavaliere, e ci perdoni pure Luis Rodrìguez) una simile affermazione rischia di prendere da noi, in un Paese dove nel centrodestra ci si contende il titolo di miglior baciapile, e centrosinistra ministri e leader di partito seriosamente discutono se e come partecipare al Family Day, addirittura un tono vagamente zapaterista. Musica, per le nostre orecchie. Cavaliere, non ci deluda. Avanti così.
From: "Il Riformista"

Come voterei in Francia di Guido Ceronetti


Neppure venti giorni e la vecchia madre delle repubbliche europee avrà un nuovo presidente. Se ci sarà ballottaggio, un po’ più tardi. Dei tre candidati, fossi cittadino francese (lo sono culturalmente, non comporta voto) voterei a occhi chiusi e senza esitazioni Nicolas Sarkozy.L’importanza di questa elezione per l’Europa di cui l’unione è fatta di coccoina secca è grandissima: la Francia è l’unico Stato UE a regime presidenziale, con presidenza effettiva e sistema di potere in grado di operare (se gli piaccia, se abbia immaginazione e volontà combinate) per qualche bene comune, passando sopra ai partiti, lasciandoli vivere ma tenendoli lontani dall’arsenale dei bottoni, le mani sulla Polis nel suo insieme soltanto due, invece di venti o più (in Italia sono un’ottantina): dunque, di fatto, la vera, non astratta, non inutile, non puramente formale presidenza europea è esotericamente e cripticamente concentrata nel temporaneo abitatore dell’Eliseo di Parigi.Una disperante anomalia di ventisette stati a rimorchio esclusivamente di potenze industriali e dove il governo è fatto dai bilancini settari dei partiti, pone la necessità e l’urgenza di una influenza formidabile da parte di quella solitaria e centralizzata repubblica che chiede, col resto di questa ipotesi unionista europea, di avere al timone un tipo d’uomo somigliante nel pericolo al capitano MacWhirr del Tifone conradiano: la follia degli elementi, la banda dei cinesi impazziti nella stiva, e il ponte di comando come un inestinguibile faro, di là il capitano impassibile dà pochi e infallibili ordini, tutti sentono la sua forza interiore, la nave è salva.A Ségolène una cartolina di simpatia - il voto a Sarkozy. Questa, chiaramente, non è un’analisi politica: sarei un pesce fuor d’acqua. Del personaggio in questione conosco ben poco. Resse bene, mi pare, nella brutale prova delle banlieues insoumises, ma una presidenza repubblicana che sia esemplare per l’Europa dell’euro non manovra soltanto delle Compagnie di sicurezza. Il mio voto immaginario viene da un bisogno psicologico di grinta, di un potere forte - democratico ma forte - e di leggi impersonalmente forti, che mi consentano di essere sufficientemente, nel loro interno, anarca o hippy, libero come un malato di cui il medico assuma sopra di sé la catena, libero all’ombra del danda della legge, la cui funzione principalissima è di perseguitare e reprimere la violenza, di essere un burbero e laconico MacWhirr contro l’uragano della violenza urbana e mondiale, contro il male che la violenza incarna dappertutto, servendolo. Perché di fronte alla violenza questa Europa di vecchi arresi e di torrenzialmente dimessi dagli ospedali, di rincoglioniti e inebetiti dalle cure mediche e dalle pubblicità, di vecchi che spingono passeggini e carrelli gonfi di acquisti superflui, non è che un polpettone di carne spenzolante nella gabbia delle tigri. VIOLENZA io grido, e nessuno risponde: il grido di Giobbe (19,7 versione mia Adelphi) non ha mai cessato di risuonare e non è mai stato più attuale.Se colloca in testa a tutto il problema dell’ordine repubblicano e non si farà indicare la strada dall’ectoplasma ossessivo del PIL, Sarkozy è l’uomo giusto. Parallelamente - non subordinatamente - uno Stato con una enorme sequela di centrali nucleari prossime all’obsolescere, in un’Europa esposta a tutte le malavite e a tutti i progetti che implicano disastri ambientali, ha l’obbligo di non fregarsene, e noi da qui, pochi lucidi tra indifferenti cronici in eccesso, rassegnati a governi per i quali l’attenzione all’ambiente compare nei programmi per esibizione di bonarietà indulgente, aspettiamo umiliati e impotenti che qualche UFO di cruda consapevolezza dello stato del pianeta ravvivi il grigio sporco dei cieli al di là di tutto l’arco alpino. Dai governi italiani non mi aspetto segnali, e non so se ne verranno dal futuro presidente in Francia: questo per me è un Sarkozy ignoto.La parola ENVIRONNEMENT (ambiente) lo inquieta, lo tormenta, lo attrae? Mi pare tuttavia abbia manifestato l’intenzione di contenere le ondate migratorie, che portano asiatizzazione e periferie incurabili, ghetti, paure. Anche su questa smisurata sfida l’Europa UE è una statua di Arpocrate priva di mani. Che suoni la diana mattutina e il gallo canti nei cortili dell’Eliseo di Parigi.

From: "La Stampa"

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