Rivoluzione Liberale

Editoriali,articoli e rassegna stampa di cultura liberale.

Saturday, January 27, 2007

Nessuno tocchi Israele di Elio Antonucci


“Nessuno tocchi Israele”. Lo ripeteva spesso Indro Montanelli nelle sue compiante “Stanze” del Corriere della Sera. E risulta superfluo aggiungere che non possiamo che sottoscrivere le sue parole. A sessant’anni dall’eccidio nazista, si celebra oggi la giornata della Memoria. Sei-milioni-sei- di ebrei trucidati dalla follia umana in nome di ideologie sconfitte dalla storia. In apparenza. Perché oggi più che mai lo Stato di Israele si trova accerchiato da nemici e fanatici che altro non vogliono che la sua cancellazione. E non bastano le odierne ed ipocrite manifestazioni di solidarietà italiane per dimenticare la vergogna che si è consumata nel nostro Paese. Abbiamo visto bandiere bruciate, manichini dati alle fiamme, scritte antisemite nei cimiteri, giornalisti al servizio unilaterale della causa palestinese. Oggi più che mai è profondo il solco tra chi invoca e persegue giustizia e libertà e chi, dall’altra parte, celatosi sotto la finta ala pacifista, simpatizza con il terrorismo islamico. “Nessuno tocchi Israele” rimbomba nelle mie orecchie. Ma da domani, finiti i cerimoniali di convenienza e circostanza, tutto tornerà come prima. In barba ai discorsi bugiardi e patetici dei nostri governanti. E riprenderà la nostra battaglia in nome della democrazia e del diritto. Quello dello Stato israeliano di esistere.


“Bisogna saper riconoscere da che parte sta la giustizia ed esser pronti a difendere i civili sterminati dai terroristi sotto bandiere diverse: a volte islamiste, a volte razziste o nazionaliste” – Andrè Glucksmann, filosofo e scrittore ebreo.

Nessun passo indietro di Mario Sechi


La discussione sul «Delfinato» seguirà quella del «Termidoro» e pur cambiando i nomi il tema è il solito: chi sarà il leader dopo Silvio Berlusconi? Le frasi del Cavaliere su Gianfranco Fini sono importanti, ma non - come si crede - per il tema della successione. Non c’è alcun passo indietro di Berlusconi, semmai dobbiamo registrare un paio di passi avanti. Vediamo perché. Le possibilità che il governo Prodi cada sono legate a due scenari: 1. Una crisi di politica internazionale su cui le varie anime dell’Unione non riescono a trovare un compromesso; 2. Una pesante e irrimediabile sconfitta elettorale.Il primo caso non è scolastico, basti pensare all’Iran che sta costruendo la bomba atomica e al caos mediorientale. Il secondo è addirittura in agenda: le prossime elezioni amministrative (test a maggio con oltre 10 milioni di votanti) e quelle europee del 2009. Le scadenze sono ravvicinate, le possibilità che la maggioranza vada in crisi reali, il centrodestra non può farsi trovare impreparato. La strategia della «spallata» è stata sostituita da una politica di medio termine che ha un obiettivo primario: rafforzare il «nocciolo duro» dell’alleanza, depotenziare la spinta centrifuga dell’Udc, non farsi prendere di sorpresa dalla eventuale caduta dell’Unione, avere una leadership carismatica e un nuovo centrodestra.Per centrare questi obiettivi Berlusconi deve stringere i bulloni dell’asse con An e continuare a rassicurare la Lega su autonomia e legge elettorale (questi sono i punti fondamentali per Bossi, non la successione né il partito unico). Letta in questa chiave, la dichiarazione del leader di Forza Italia è logica e può trovare un luogo di sintesi: la Federazione. Cioè lo strumento che Fini - proprio l’altro ieri in un’intervista al Giornale - ha chiesto sia realizzato guardacaso prima delle elezioni amministrative, l’architettura politica alla quale sta lavorando Giulio Tremonti. Visto in prospettiva dunque il tema non è quello della successione - An ha spiegato che «il problema non è all’ordine del giorno» - ma della coesione e «rifondazione» del centrodestra. È una strategia che sul piano interno mette allo scoperto i limiti dell’altra opposizione, quella di Casini. Stretta nel blocco centrodestra-centrosinistra, l’Udc ha lo stesso spazio di manovra di un canotto in una piscina e la frase infelice pronunciata ieri dall’ex presidente della Camera («ognuno si sceglie i dirigenti che vuole») è sintomatica delle difficoltà in cui si muove un partito che trarrebbe giovamento solo da un’improbabile scomposizione dei poli. Il problema non è quello del «Delfinato», le scadenze elettorali sono talmente ravvicinate che a nessuno è consentita una fuga in avanti: basta dare un’occhiata ai sondaggi per capire che non si può pensare di capitalizzare la sfiducia nei confronti del governo senza il Cavaliere in sella. È il leader carismatico sul quale contare perché interpreta al meglio un fenomeno sociale pre-esistente allo stesso Berlusconi: il berlusconismo. La sinistra italiana non ne ha mai compreso i fondamenti e le ragioni e per questo si trova perennemente in transizione. Il problema della successione, dunque, non è di Berlusconi e paradossalmente nemmeno dei suoi potenziali eredi. Riguarda l’elettorato del centrodestra e le sue pulsioni più profonde, le sue aspirazioni. Quell’elettorato oggi si riconosce nel Cavaliere. Scalpita e non vede l’ora di votare.


From "Il Giornale", January 27, 2007

Thursday, January 25, 2007

Che Paese di....


“La Consulta cancella la legge ad personam”. Così campeggia il titolo sulla prima pagina dell’ottimo quotidiano “La Repubblica”. E per l’amor di Dio, dubbi non ne avevamo. Dichiarando, infatti, come illegittimo l’articolo 1 della Pecorella nella parte in cui esclude che il Pm possa proporre appello contro le sentenze di proscioglimento, i giudici hanno di fatto annientato l’anima della legge stessa. Gioiscono quindi i massimalisti, i comunisti, i frequentatori dei salotti della Roma bene, i corrieristi, i repubblichini, la parte più becera del popolo italiano. “Forca, forca” è l’urlo che si alza dalle lande desolate di questo malandato Stato del non – diritto. Ma non un monito contro Saddam. No, povero Saddam. Lui non andava giustiziato. La schizofrenia della sinistra italiana non conosce limiti né vergogna. Il giustizialismo è regola di vita contro gli avversari, pardon, i nemici, mentre per i terroristi e gli assassini vale sempre il motto “Nessuno tocchi Caino”. Miseria, in che Paese di merda viviamo. Un Paese dove guai a te se hai una bega legale: sei già condannato. E chissene frega se poi sei innocente e malauguratamente vieni assolto: nessuno ne parla, sei colpevole lo stesso. Da oggi, infatti, che tu sia stato considerato estraneo ai fatti non è più garanzia della fine del processo. Qualsivoglia Pm potrà sempre riavviare il tutto che tanto “sei-colpevole-lo-stesso”. Non siamo in una vera e compiuta democrazia. Berlusconi ha ragione. Ma oggi sono tutti a cianciare di Pacs, di Vicenza e dell’arrivo della neve. Mentre la nostra libertà ci viene sottratta, minuto dopo minuto. Che Paese di merda.

Tuesday, January 23, 2007

L'Unione Europea è un amico o un nemico degli States?


Riportiamo questo interessante saggio di politica economica apparso il 22 Dicembre scorso sulle pagine on - line della Heritage Foundation.


di John Blundell
On May 1, 2004, ten new countries,[1] with a com­bined population of 74 million, became members of the European Union, bringing the total E.U. popula­tion to 454 million. This means that the E.U. now has a population more than 50 percent larger than that of the United States. And with Romania and Bulgaria joining on January 1, 2007, another 30 million will take that to 484 million.
The European Union now stretches from the Latvi­an–Russian border in the east to Galway Bay on the west coast of Ireland, and from the Arctic wastes of Fin­land and Sweden in the north to Cyprus in the south.
The question which I wish to pose is: Is the E.U. America's friend or—dare I say it—foe?
Without U.S. support it is doubtful whether the project of European political integration could have got­ten off the ground or developed in the way that it has.
But from the very beginning the U.S. gave its unconditional backing. During the 1970s the success of the project was judged to be sufficiently important to U.S. interests for the CIA to funnel millions of U.S. dollars into the European movement.
The U.S. has also tolerated the European Common Agricultural Policy (CAP)[2] surely the most inefficient and inhumane system of agricultural support ever devised.
Why? Because American policymakers believed that the process of European political integration would lead to the creation of a democratic, market-based Atlantic ally—an ally with whom a heavy burden of economic and security responsibilities might be shared.
It was taken for granted that the emerging Euro­pean Union would share America's core values.
The reality is quite different. As this hugely ambitious but flawed project has taken shape, pol­icy differences between Europe and the U.S. have both multiplied and deepened. Recent differences between the E.U. and the U.S. include those over Iraq, Palestine, Iran, ballistic missile defense, the international criminal court, genetically modified crops, the Kyoto accords, farm support, China, Tai­wan, Cuba, the death penalty, as well as a whole raft of trade issues. Indeed, while it is possible to name individual European political leaders who genuine­ly like and admire America, it is difficult to think of a single major issue on which the U.S. and the E.U. hold identical views.
So one is bound to ask: If it is truly the case that Europe and America share common political val­ues, why do they disagree so often? The one state­ment that I predict you will not hear from a spokesman for the E.U. Commission in Brussels is: "We applaud American leadership, and we will back the U.S. all of the way." Indeed, we have now reached the point where E.U. policy gives every impression of having been defined in opposition to U.S. policy and where it is abundantly clear that the European aspiration is to be a rival, not a partner.
Indeed, there is no escaping the truth that the differences to which I have alluded arise from the very nature of the European project and the ideas on which it is based.
Those ideas are not the consequence of political integration but rather the foundation on which it has been constructed. In addition to hostility to the nation-state, those ideas are characterized by a desire to manage economic and political life in such a way as to create consensus and to exclude or marginalize those whose behavior or views are judged to be out of step. They are also characterized by a preference for group rights over individual rights and an innate dislike and fear of robust or "unmanaged" competi­tion in both the political and economic spheres.
"Ever-Closer Union"
It is worth pausing to describe in concrete terms just how much progress has been achieved towards "ever-closer union"—the goal established in the Treaty of Rome in 1957 which laid the foundations of the present European project.
The European Union now has its own parlia­ment, executive, supreme court, currency, prosecu­tor, army (of a sort), anthem, and emblem.
The attempt to adopt a European Constitution has been stalled since 2004 when the French and Dutch rejected the proposed text in referenda.[3] But after the attempt to bring in the constitution by the front door failed, considerable success is being achieved as the result of attempts to introduce it through the back door, even though such methods are of questionable legality.
Meanwhile, among European political elites there is growing support for a so-called mini-con­stitution. The plan is the idea of Nicolas Sarkozy, the French interior minister and presidential hope­ful, who has suggested that in order to assuage public anxieties the revised document should be called something other than a constitution—just as the autonomous European defense capability is to be referred to as the "European rapid reaction force" rather than an "army."
However, it should be noted that Mr. Sarkozy's mini-constitution will not be as "mini" as all that. Among those attributes of a modern state that are to be added to the European design are full legal personality (which will enable the E.U. to sign trea­ties and to participate in international organiza­tions as a single entity), a president, and a foreign minister.
In addition, there is to be an extension of quali­fied majority voting in the European Council, which will end the national veto in a number of areas including justice and criminal affairs. One consequence will be that the protection enjoyed by British subjects for centuries as a result of habeas corpus and the presumption of innocence may dis­appear. As Simon Heffer wrote in The Daily Tele­graph on September 20, 2006:
If we surrender our veto on these matters, EU-set penalties could be imposed on British subjects in Britain, and for breaches of laws that are not crimes or punishable in Britain. Equally, according to some legal opinion, matters that are criminal offences in Britain could be decriminalised by a decision of the EU without any recourse to the will of the British people.
The other horror is that, as EU competence increases, so the ability of member states to propose their own laws for their own people shrinks until it is extinguished. That is the ultimate goal of the ever-closer union: but it entails a stark and anti-democratic removal of sovereignty from this area which impacts directly on our most basic freedoms and liberties.
Now all of this might strike you as being purely Europe's affair. But let me remind you that the prin­ciple that U.S. interests are most likely to be served by the extension of democracy wherever possible has been one of the foundations of U.S. foreign policy. In the post-Second World War era this policy was triumphantly vindicated in the case of Western Europe, where war-shattered nations were restored to democracy.
Undemocratic Institutions
But U.S. policymakers have been remarkably slow to grasp that the supranational institutions of the new top-down Europe (to which the once inde­pendent European states have ceded sovereignty) are remarkably undemocratic. In the judgment of a former E.U. commissioner, it is clear that if the E.U. applied to itself the criteria that it recently applied to all new members, it could not be admitted to the E.U. because it is insufficiently democratic!
The political nature of the E.U.—which was sold to the British public as a strictly limited commercial undertaking—raises important questions about the long-term stability of this new political entity, as well as about the future relations between the E.U. and the U.S.
Such doubts are reinforced by the history of other multi-lingual political federations which have been imposed top down by unrepresentative political elites, as in, for example, the Soviet Union and Yugoslavia.
In the list of E.U. attributes which I rehearsed a moment ago you may have noticed that something was missing. In its top-down way Europe may have created many of the attributes of a state, but there is, of course, no such thing as a European people or European nation. There is consequently no such thing as European public opinion or a European public space, or a European demos. Or indeed a common language (there are at least 20 different national languages, of which English is the most widely spoken). And if people do not feel common bonds of allegiance and obligation, and if this prob­lem is compounded by the lack of a common lan­guage in which political discourse can take place, there is the ever-present danger that they will not accept majority decisions.
If the U.S. has been disappointed in its expecta­tion that the E.U. would turn out to be a democracy in its own image, it also has ample grounds for dis­appointment with E.U. policies on the economy and trade.
An outward looking Europe that embraced open markets and free trade would serve U.S. interests. It would also serve those of European consumers who pay much more than they should for their food. The reality is an economy characterized by low growth, rigid labor markets, increasingly intru­sive regulation, high taxes, and a high level of trade protection in some sectors. All of which may ex­plain why, measured in per capita terms, the GDP of the United States is 45 percent higher than that for the EU-25.
Nor should it be overlooked that two of the most prosperous European states—Norway, which enjoys a higher GDP per capita than the U.S., and Switzerland, which is only fractionally behind— are not E.U. members. And, those E.U. economies which have recently performed relatively well are those which are the least well integrated economi­cally, i.e., those that remain stubbornly outside the eurozone: Britain, Sweden, and Denmark. This sit­uation scarcely provides grounds for further eco­nomic integration of the kind upon which the E.U. is urgently embarked.
Crushing Regulatory Burden
Regulatory hyper-activism is one of the most obvious characteristics of the E.U.
Regulation has been the means by which the E.U. has been created and through which supranational institutions have been established and strength­ened. It is the means by which a self-serving, unelected, and largely unaccountable salariat—I refer, of course, to the E.U. Commission in Brus­sels—buttresses its power and interests.
The fact is that the E.U.'s institutions are hostile to any differences that are perceived to exist among member states and are not prepared to let these differences be evened out over time by the normal processes of competition; instead the E.U. displays a strong desire to "harmonize" and to impose "solutions."
Attempts at harmonization invariably take the form of increased regulation.
It is not even clear how many E.U. regulations there are! When pressed on the matter, a British minister said that "as far as the government has been able to verify" the number of sets of regula­tions enacted between 1973 and 2002 as a result of E.U. membership was 101,811. But Britain, like other applicants, was obliged to adopt the acquis communautaire—the existing body of E.U. regula­tions and directives—on entry. The total number of sets of regulations to which British citizens are sub­ject as the result of E.U. membership may be in excess of 200,000, with an average 2,500 new sets of regulations being added each year. Maybe a handful at most will be debated and many will be made still more stringent when transposed into British law—a process which is now referred to as "gold plating."
However, following negotiations with the commis­sion, the 10 new members who joined in 2004 have been required to transpose into national law only a mere 26,000 items of legislation (although what pro­portion of these will actually be observed is another matter) running to some 75,000 pages of text.
Eurozone's Dismal Performance
Let me turn to the record of Europe's single cur­rency, the euro, whose primary aim was political rather than economic. It is perhaps too soon to make a final judgment about whether the introduction of the euro has failed in its central aim of creating polit­ical unity, or whether it has led to heightened ten­sions as members blame one another for the eurozone's dismal performance. The record to date, however, strongly suggests the latter.
For example, for several years articles blaming Germany for holding back any economic recovery were a staple ingredient of the newspapers in all of the 12 eurozone members, while German econom­ic commentators customarily attributed their coun­try's prolonged economic stagnation to loss of control over interest rates to the European Central Bank, a view which is shared by, among others, Professor Milton Friedman. Among the research staffs of international banks and think tanks there is now regular discussion about whether Italy or Spain will the first to quit the euro in order to retain control of a key economic variable as the first step in overcoming deeply rooted economic problems.
So far, the record not only suggests that there is no one interest rate that suits all in an economy where labor mobility is low, where there is no com­mon language, and where there are no inter-state transfers of the kind which exist in the U.S., but also that it is difficult in practice to find a rate that suits anyone.
For while rates have been too high for some— they have been too low for others.
Unlike the U.K., which enjoys an opt-out from the single currency, the 10 new member states do not possess the right to retain their national cur­rencies and will be expected to adopt measures which achieve early economic convergence with the eurozone.
Not surprisingly, while the U.S. economy dragged the world economy out of recession, the eurozone tugged in the other direction.
There is no doubt that without the stimulus pro­vided by U.S. recovery the E.U.'s performance would be still more lackluster. In recent years U.S. growth has at times been over six times higher than the euro­zone. The U.S. economy is doubling every 25 years; the eurozone economy is doubling every 140 years.
Europe's economic future is also likely to be blighted by some extremely adverse demographic factors. In 1900, Europe accounted for one-quarter of mankind—falling to 22 percent in 1950 and 17 percent in 1975. But soon the population will start falling in absolute terms, with the consequence that there will be fewer and fewer people of working age supporting more and more over-65s. Enlargement did not help. It extended the formal boundaries of the E.U.—but all of the new E.U. states are set to lose population by 2050 and at a faster rate than in Western Europe.
None of this augurs well for those who hope that Europe could create a counterweight to the U.S.
Threat to U.S.–U.K. Alliance
Such are the huge disparities in economic, tech­nological, and military power that the ambition to create a unitary European state as a countervailing force to the United States is doomed to abject fail­ure. Nevertheless, its pursuit continues—to the detriment of the economic and security interests of both North Americans and Europeans.
The attempt to create an independent and inte­grated European defense capability—or what the French refer to as Defense Europe—has some extremely serious implications for the United States. Indeed, as matters stand now I doubt whether Britain will be an effective ally in 10 years time even if the British people want this.
Let me explain. Defense procurement is more and more coming under that 2004 creation, the European Defense Agency. Its objective is not to open up an E.U.-wide market in procurement but rather to provide another building block in the cre­ation of a unitary European state. The result can only be to destroy the special relationship that exists between Britain and the U.S.
This is a two-stage process. First, common spec­ifications are being set for equipment throughout the E.U. which mostly differ from U.S. ones. Then comes the insistence on common procurement and thus, as Institute of Economic Affairs author Rich­ard North has written in The Business (May 28/29, 2006), "The U.K. military can progressively be brought into line with European structures and doctrines." Even when defense contracts are let to British firms there is often an Italian, German, Swedish, Austrian, Belgian, even French contractor actually producing the items. So the "U.K.'s armed forces (are becoming) uniquely dependent on the goodwill of E.U. member state governments."
As North also points out: "That will ensure that Britain's war-making capabilities will progressively be defined by what its 'partners' will permit, evi­dent in the first Gulf War, when Belgium refused to supply the U.K. with artillery shells because it (Bel­gium) disapproved of its actions, i.e. the U.K.'s sup­port of the U.S."
Another consequence will be that even if the U.K. is able to defy the constraints imposed by the Common European Foreign and Security Policy in order to join its traditional American partner on some high-tech battlefield of the future—a very big "if" indeed—its weapons may be incom­patible with those of the U.S. As a result, the prac­tical value of British military assistance will be greatly reduced.
I hope The Heritage Foundation will take a good, long look at the European Defense Agency and its work and its implications for our ability to stand by the USA.
But having endorsed the project for half a centu­ry, many Americans seem reluctant to withdraw their support or even to recognize the nature of the Europe which they have helped to create. Some evidently believe that the process of European inte­gration is so well established that any reappraisal of U.S. policy towards the E.U. would produce more problems than it would solve.
That approach fails to take into account both the influence that the U.S. could still bring to bear and the fragility of the political project now approach­ing fruition. It also underestimates the enormous nuisance that the E.U. can cause to the U.S. as the E.U. proceeds down an historic blind alley of its own choosing—without achieving any worthwhile benefits to members.
In my view, the attempt to bring about "ever-closer union" will ultimately be abandoned, either as the mounting economic and political price of integra­tion becomes more widely grasped, or because Europe's supranational institutions simply break down. Better that this should happen sooner rather than later, and there is no reason at all why the U.S., having played midwife at the birth of this political infant, should not play a role in its demise.[4]
As Lady Thatcher wrote:
That such an unnecessary and irrational superstate was ever embarked on will seem in future years to be perhaps the greatest folly of the modern era.
And that Britain, with traditional strengths and global destiny, should ever have be­come part of it will appear a political error of the first magnitude.
While America begins to ponder the wisdom of its support for the E.U., the choices facing Britain are more urgent and acute. For decades it was pos­sible for many to believe that, as long as the country positioned itself more or less mid-way between Europe and America in terms of public philosophy and economic outlook, minor adjustments could be made according to circumstance and all would be well. It is now obvious that the innately anti-American and anti-democratic character of the E.U. mean that, in as far as it was ever viable, that option is no longer available.
For Britain, therefore, the lesson ought to be clear. The more it is absorbed into the European project, the more it will distance itself not only from its most powerful and most constant ally, the United States, but also from self-government and the economic successes for which it is qualified by history and culture.

John Blundell is Director General of the Institute of Economic Affairs, London, England.

KGB, le televisioni inglesi tirano in ballo Prodi


«Romano Prodi era un uomo del Kgb... il collegamento per effettuare operazioni in Italia». Alexander Litvinenko, l’ex spia russa avvelenata a Londra due mesi fa, parla nella sua lingua seduto su un divano anonimo. Ha l’aspetto di un uomo in salute, i lineamenti ragionevolmente distesi, una testa piena di capelli. L’immagine che il mondo conoscerà di lui, ormai agonizzante in un letto d’ospedale, è ancora lontana. Ieri sera, nel notiziario delle 19.30, l’emittente televisiva britannica Itv ha mandato in onda in esclusiva un’intervista a Litvinenko raccolta nel febbraio del 2006 da Mario Scaramella, ex consulente della commissione Mitrokhin e attualmente in prigione in Italia che incontrò «Sasha» per l’ultima volta proprio nel giorno in cui l’uomo venne contaminato dal polonio. Il giornalista che ha presentato il servizio ha spiegato che questa è stata la prima volta in cui Litvinenko ha fatto delle affermazioni nei confronti dell’attuale primo ministro italiano spiegando che non ha mai usato la definizione «agente del Kgb», ma «uomo del Kgb». Litvinenko spiega di aver saputo da Anatoli Trofimov, ex vice-capo dell'Fsb (ex Kgb), dei presunti rapporti tra Prodi e i servizi segreti russi. Nell'intervista Litvinenko afferma: «Trofimov non disse esattamente che Prodi era un agente del Kgb perché il Kgb evita di usare quella parola. Disse che Prodi era “un nostro uomo”, un uomo del Kgb e che con Prodi il Kgb portava avanti in Italia qualche operazione segreta, sporca. Io ho capito che Prodi lavorava per il Kgb». Nelle dichiarazioni a Scaramella che Itv definisce come «un investigatore italiano», Litvinenko ripete anche le sue accuse ai servizi segreti russi. «Avevano minacciato di uccidere mio figlio che ha sei anni – ha raccontato – hanno minacciato tutta la mia famiglia, mi hanno messo una bomba in casa». Il servizio di Itv è durato soltanto pochi minuti nell’ambito del telegiornale, ma a due mesi esatti dall’assassinio che ancora tiene molto impegnata sia Scotland Yard che i servizi segreti moscoviti e che tante grane ha creato al presidente Putin, anche la Bbc si occupa nuovamente del caso. E un’ora e mezzo dopo le rivelazioni di Itv, Bbc one ha mandato in onda «Panorama», il programma dedicato al giornalismo d’inchiesta dell’emittente tutto dedicato alla morte dell’ex agente russo. Una ricostruzione in piena regola, con interviste multiple, alla moglie di Litvinenko Marina, ad altri suoi amici e di nuovo, allo stesso Scaramella. E anche la Bbc ha tirato in ballo il nome di Romano Prodi. Il programma «Panorama» ha infatti sostenuto di essere venuto in possesso di un documento classificato come Top Secret dal governo italiano nel quale Sasha accusa l’attuale premier di essere «un amico del Kgb». Ed è invece proprio Scaramella che con Litvinenko ha avuto una lunga frequentazione proprio per raccogliere delle informazioni relative a delle operazioni dei servizi segreti russi, a raccontare ai giornalisti di «Panorama » che l’uomo fu messo in guardia dal recarsi in Italia. «La sua idea quando se ne andò da Mosca – ha raccontato l’ex consulente italiano – era di venire in Italia e aveva nominato un amico, un collega nei servizi segreti che gli aveva detto che non poteva venire in Italia perché in questo paese c’erano dei grandi amici della Russia». «Ma lei crede che Prodi sia una spia del Kgb?» è stata l’incalzante domanda che l’intervistatore britannico John Sweeney ha posto ancora a Scaramella. «Io non penso nulla – è stata la sua risposta – io ho semplicemente raccolto alcune informazioni da diverse persone su di lui, sul passato, sul presente. Alcune fonti qualificate, Litvinenko incluso, mi hanno detto che alcuni ufficiali a Mosca lo considerano come un loro uomo, un uomo del Kgb». Sempre la Bbc ieri ha ricordato che «il primo ministro italiano ha sempre smentito tutte le affermazioni che lo collegano ai servizi segreti russi». Alexander Litvinenko è morto il 22 novembre scorso a Londra dove ormai viveva da anni insieme alla famiglia. Anche il generale Trofimov non può più parlare: è stato assassinato da sicari a Mosca nel 2005. Il caso è ben lungi dall’essere archiviato. È proprio di qualche giorno fa la notizia che il suo assassino sarebbe stato ripreso dalle telecamere a circuito chiuso dell’aeroporto di Heathrow. Di lui si conoscerebbe perfino il nome, ma non il luogo dove si trova attualmente dato che sembra scomparso nel nulla, comenei più classici romanzi di spionaggio.


From "Il Giornale", January 23, 2006

Monday, January 22, 2007

Il tracollo dell'Unione


Torniamo, dopo qualche mese, ad occuparci di sondaggi politici italiani. Si tratta di un argomento che negli ultimi tempi sembra letteralmente scomparso dalle prime pagine dei grandi quotidiani nazionali. E basterebbe questa assenza a farci capire quale sia l'andazzo delle rilevazioni statistiche più recenti. Come abbiamo ripetuto fino alla nausea, è necessario analizzare con molta cautela i dati dei sondaggisti, soprattutto in Italia. E sarebbe assolutamente sbagliato considerare questi numeri come sacri, ripetendo lo stesso errore di chi - alla vigilia delle ultime elezioni politiche - ha per lungo tempo previsto una vittoria di larga misura del centrosinistra. Per poi svegliarsi in un paese diviso esattamente a metà.Quello che si può fare, invece, è analizzare dati omogenei (come quelli prodotti da un singolo istituto di ricerca) per cercare di individuare un trend di medio-periodo in grado di fornire un'immagine abbastanza precisa, anche se in movimento, degli spostamenti interni al corpo elettorale. Questa volta abbiamo deciso di prendere in considerazione gli ultimi quattro sondaggi di Euromedia Research. La società di Alessandra Ghisleri, che ha tra i suoi clienti di spicco Forza Italia, nei mesi precedenti alle elezioni politiche di aprile era considerata - dai mainstream media e dai suoi stessi concorrenti - poco più che un megafono propagandistico di Silvio Berlusconi. Quando dai sondaggi si è passati al conto dei voti, però, si è scoperto che le previsioni di Euromedia erano molto più vicine alla realtà di quanto non lo fossero i sondaggi di istituti di ricerca molto più blasonati.
Negli ultimi mesi, Euromedia ha reso pubblici i risultati di quattro rilevazioni statistiche condotte dall'ottobre 2006 al gennaio 2007 con metodo CATI (Computer Aided Telephone Interview), su un campione che oscilla tra i 1000 e i 2000 intervistati. Pur con qualche comprensibile incongruenza nei valori relativi ai partiti molto piccoli, i dati di Euromedia sembrano piuttosto solidi e omogenei. E disegnano uno scenario disastroso per il centrosinistra italiano; in particolar modo per il cuore di quello che dovrebbe diventare il futuro Partito Democratico.
DS e Margherita, che alle elezioni di aprile avevano raccolto il 31,2% di voti alla Camera (dove si sono presentati con una lista unica), hanno visto in autunno precipitare i loro consensi: prima al di sotto del 30% e poi, all'inizio di quest'anno, addirittura al 26%. Inutile dire che questi numeri, se confermati in una tornata elettorale nazionale, rappresenterebbero un'apocalisse non solo per le speranze del Partito Democratico ma anche (e soprattutto) per un'intera classe dirigente. Al crollo di DS e Margherita, poi, si è accompagnata una crescita molto rapida di Forza Italia. Il primo partito del centrodestra, che alle politiche aveva raggiunto il 23,7%, in autunno è balzato prima al 29% (raggiungendo la lista unica dell'Ulivo) e poi, progressivamente, oltre il 32%.
E' interessante aggiungere, in un'ottica bipolare, che i nuclei di quelli che potrebbero (dovrebbero?) diventare i due "grandi partiti" delle rispettive coalizioni (DS + Margherita e Forza Italia + Alleanza Nazionale) stanno rapidamente acquistando pesi politici assai differenti. Alle elezioni di aprile erano distanziati di meno di 5 punti percentuali (36% contro 31,2%) a favore del centrodestra, mentre oggi il "Partito delle Libertà" avrebbe piú di 18 punti di vantaggio sul "Partito Democratico" (44,4% contro 26,0%).
I risultati completi dei sondaggi Euromedia possono essere consultati sul sito ufficiale della Presidenza del Consiglio (qui, qui, qui e qui), ma aggregando i dati per coalizione si scopre che già ad ottobre la Casa delle Libertà (esclusa l'Udc) aveva sorpassato l'Unione, per poi raggiungere e superare il 50% a dicembre. Oggi, senza l'Udc, la CdL è attestata oltre il 53% con più di 11 punti percentuali di vantaggio sull'Unione. Insieme al partito di Pierferdinando Casini, poi, il centrodestra arriva ad uno stratosferico 57,3%, con 15 punti esatti di vantaggio nei confronti del centrosinistra.
Nei prossimi giorni, proveremo ad analizzare i risultati di altri istituti di ricerca (gli stessi che, ad aprile, vedevano l'Unione nettamente davanti, con un vantaggio che oscillava tra il 4% e l'8%). Vi anticipiamo che, anche se altri sondaggisti valutano diversamente il distacco tra le due coalizioni, il risultato finale non è troppo distante da quello fotografato da Euromedia.

From "RightNation.it", January 22, 2006

Friday, January 19, 2007

Se questo non è un inciucio

Riportiamo l'intervento odierno di Pier Ferdinando Casini, pubblicato sul "Corriere della Sera". Un fulgido esempio di come non esista una seria opposizione a questo pessimo governo.



Caro Direttore, l'Italia ha bisogno di imboccare subito la strada delle riforme, a cominciare dal sistema previdenziale e dalle liberalizzazioni. Il futuro dei nostri giovani e dei consumatori dipende dal coraggio con cui l'intera classe politica affronterà questa sfida che non è più rinviabile. L'Udc è interessata a partecipare al dibattito che il governo avvierà, in particolare, sulle liberalizzazioni. Abbiamo idee e proposte, siamo pronti a dare il nostro contributo se il governo non sarà sordo agli apporti esterni e a patto che tutto avvenga alla luce del sole e con chiarezza: un'opposizione seria non segue la strada dell' Aventino, non si limita a compiacersi degli errori altrui, ma incalza chi governa, lo spinge e lo sollecita sempre.Per cominciare, però, contestiamo che con provvedimenti come il decreto Bersani si siano già fatti sostanziali passi avanti. Non è stato infatti toccato il cuore del problema: i monopoli pubblici locali di aziende ex municipalizzate, specie comunali, gestiscono tuttora settori strategici come l'energia, il gas, l'acqua e i trasporti, ma anche l'edilizia e i servizi. Negli ultimi cinque anni, come risulta da una ricerca del Sole 24Ore, le società a partecipazione comunale sono aumentate del 120%. Sono ancora troppi i mercati da liberalizzare e le imprese pubbliche da privatizzare. Gli anni 90 ci hanno insegnato che privatizzare senza liberalizzare porta solo a sostituire i monopoli pubblici con monopoli privati, alimentando ampie posizioni di rendita e di potere.Le teorie economiche, ma soprattutto l'esperienza di altri Paesi europei, ci insegnano che la capacità di offrire servizi più efficienti a costi più bassi dipende dalla diffusione della concorrenza. Sotto questo aspetto, l'Italia soffre di una grave arretratezza in settori strategici, col risultato che le nostre tariffe sono tra le più alte d'Europa, la qualità dei servizi non migliora, e il tutto ha gravi ripercussioni sui bilanci delle famiglie e delle imprese.La concorrenza per noi non è fine a se stessa, ma è uno strumento che ha come obiettivo la tutela dei consumatori e della collettività. Perciò il tema va affrontato in modo non ideologico ma laico, oltre la logica delle appartenenze politiche. Soprattutto, non può essere affrontato spacciando il mercato e la concorrenza per un far west privo di regole e governato dalla forza. Al contrario, bisogna che il mercato sia sempre più il luogo delle regole, nell'interesse di tutti.Il disegno di legge del ministro Lanzillotta sui servizi pubblici locali è una buona base per un confronto serio in Parlamento. Apprezzo la scelta del governo di andare in maniera decisa verso il sistema esclusivo delle gare per l'affidamento dei servizi e verso la separazione tra reti e gestione, lasciando le prime in mano pubblica. Il ddl dimentica tuttavia di affrontare il tema cruciale del conflitto di interessi tra gli enti locali regolatori e le aziende erogatrici dei servizi. I primi non possono essere interessati alle sorti economiche delle seconde. Il pericolo è che gli enti locali, per motivi economici e clientelari, privilegino nelle gare le proprie aziende: una lampante distorsione del sistema concorrenziale. Vanno introdotte misure che marchino la separazione tra i due soggetti. Le regole sui limiti alle concentrazioni e quelle sulle funzioni di controllo devono essere già chiare nella legge delega, affinché il legislatore delegato non possa che applicarle. E' bene che dalle vaghe affermazioni di principio si cominci anche e soprattutto noi politici a entrare nel merito delle questioni.Avanzo due proposte concrete: forme di incentivazione agli enti locali che dismettano le loro partecipazioni nelle società pubbliche, perdendone il controllo (l'incentivo potrebbe essere commisurato ai dividendi che gli enti locali cessano di percepire a seguito delle dismissioni), oppure limitazione dei diritti delle azioni possedute dagli enti locali nella scelta degli organi di governo delle società. Se il ddl Lanzillotta naufragherà come il Dpef, dopo aver urtato contro lo scoglio massimalista, o sarà accantonato nel cammino parlamentare per raggiungere un compromesso nella maggioranza, non solo avremo perso un'occasione, ma avremo condannato il Paese ad arretrare rispetto ai suoi agguerriti concorrenti stranieri.

Thursday, January 18, 2007

Algoritmi e paradossi di Elio Antonucci


C’è chi litiga per una base militare americana, chi fa lo gnorri, fingendo di non saperne nulla. Almeno fino all’altro giorno. C’è chi fa il pacifista, ma tollera che nei centri sociali si istruiscano intere generazioni alla violenza ed alla “resistenza civile”, per quanto di civile tutto questo abbia poco. Pochissimo. C’è chi vuole indire referendum popolari, chi si fa preparare i sondaggi. Con numeri strani, stranissimi. C’è chi vuole mettere mano alle pensioni, chi rimanda la questione all’indomani e chi grida “Guai a chi le tocca, che qua casca tutto!”. E non vi azzardate a isolare dal contesto la frase, chè potrebbe sembrare un’altra cosa. C’è chi viene fischiato appena mette il naso fuori dalla sua riserva indiana, ma che accusa gli altri di organizzare rumorose claque. E caspita, quanti ne sono quelli che non hanno un corno da fare se non protestare di professione? Mah. C’è chi annuncia a giorni alterni riforme eccezionali e dimissioni. Ma no, qua proprio nessuno ha pensato di chiamare uno bravo. Forse è giunta l’ora. C’è chi promette aumenti ai pensionati. E che ingrati quelli: si lamentano perché gli hanno dato sette euro in più al mese. C’è chi parla di rilancio del Paese ed ha le idee chiare e poche parole d’ordine: chiudere tutti i cantieri aperti. C’è chi ha rilanciato la “serietà al governo”. E accidenti, quanto sono seri. Vediamo un po’. Lo spacchettamento dei ministeri, la squadra governativa più nutrita della storia repubblicana, un presidente della Camera che indossa la spilletta della pace, un deputato che pianta erba a Montecitorio, un trans indeciso tra la toilette dei maschi e quella delle femmine, i pizzini per l’elezione del presidente del Senato, i controlli di viscomat, la tassa sui ladri, gli aumenti di Irpef, bollo auto e Ici sulla prima casa. E no, non è uno scherzo.
Un anno fa poche migliaia di indigeni protestarono contro la Tav in Piemonte. Tanto gridarono che l’esecutivo di centrodestra, sbagliando drammaticamente, congelò il progetto. La sinistra all’epoca gridava, scalpitava e sbraitava all’urlo “Giù le mani dai lavoratori piemontesi, bisogna rispettare la volontà del popolo”. Principio sacrosanto.
Lo scorso dicembre 2200000 (due milioni duecentomila, non poche migliaia) di persone sono scesi in piazza a Roma per chiedere più giustizia da un governo che impone solo tasse. Quel popolo è stato deriso e presto dimenticato. Ma siamo matti ragazzi?No, non c’è niente che non quadri. Questo è l’algoritmo unionista. Studiare, studiare.

Monday, January 15, 2007

Appuntamenti


Sono pur sempre comunisti...


Negli States è Benigni Flop




Nella bibbia delle ragazze dedite all’acquisto
compulsivo più che alla ricerca
del principe azzurro, “I love shopping” di
Sophie Kinsella, una gelida signora dei salotti
mondani sentenzia: “Non si è qualcuno
se non si è qualcuno negli Stati Uniti”. Roberto
Benigni qualche anno fa c’era riuscito.
Era qualcuno, laggiù dove tutti ti danno pacche
sulle spalle e ti chiamano per nome solo
quando davvero sei qualcuno, e allora incredibilmente
anche tu puoi dare pacche
sulle spalle e chiamare per nome gente come
Steven Spielberg o Robert De Niro. Indimenticabile
l’eccitato grido patriottico della
Loren – Roberto!!! – che lo proclamava vincitore
dell’Oscar per “La vita è bella”. Indimenticabile
per noi italiani, che a Benigni
tributiamo stanchi onori qualunque cosa
faccia o dica; già dimenticato per gli americani,
che alla seconda prova del regista dopo
il film sulla Shoah, hanno definitivamente
concluso di aver preso da noi e dalla Miramax
la classica “sòla”. La “tigre e la neve”,
uscito da pochi giorni negli Usa, è un
terrificante flop, che ha il merito di unire gli
americani in una sola voce: repubblicani e
democratici, favorevoli e contrari alla guerra
in Iraq, sostenitori del cinema indipendente
o della megaproduzione hollywoodiana,
wasp della sponda atlantica e multiculturali
di quella pacifica, il film non è piaciuto
a nessuno. Nemmeno i blog dei cinefili ne
parlano (o ne sparlano) granché, segno certo
che il disinteresse e la delusione hanno ormai
sepolto quell’esaltante e lontana notte
degli Oscar del ’99. Nei diversi siti di critica
cinematografica, lo spazio “scrivi qui il tuo
commento” resta desolatamente vuoto, e se,
cercando con accanimento, si trova qualcosa
in un forum, si scopre trattarsi in genere
di spettatori europei.
Il più dettagliatamente crudele è forse Ed
Halter del Village Voice, la rivista che fa tendenza
downtown. Titolo del pezzo, “La guerra
è bella”. Sottotitolo, “Bye bye Shoah, hello
Iraq: Baghdad subisce il trattamento Benigni”.
L’attacco è diretto e micidiale: “Il popolo
iracheno non ha sofferto abbastanza? Quasi
quattro anni di distruzioni, torture e caos,
un’occupazione spaventosamente malgestita,
e adesso una nuova infamia: servire da spalla
collettiva al sovreccitato regista-attore italiano,
Roberto Benigni, nel suo film incredibilmente
ottuso”. Il racconto della trama è
senza pietà. Benigni appare a Halter patetico
come poeta, irrealistico nella sua versione
saltellante del professore carismatico (impossibile
imitare Robin Williams), e francamente
molesto come corteggiatore: il comportamento
amoroso di Attilio, il protagonista, non
dovrebbe essere considerato indice di una
commovente ossessione romantica ma di una
grave psicopatologia. Le sofferenze dell’Iraq
servono come sfondo, per mettere in risalto il
coma di Nicoletta Braschi; guerra e rovine sono
solo un fastidioso ostacolo per Attilio, che
al capezzale dell’amata urla disperato: “Non
si muove! Non reagisce in nessun modo!”.
Halter nota malignamente che, a giudicare
dal silenzio annoiato che regnava alla proiezione
per la stampa, il lamento poteva riferirsi
anche alla preoccupante mancanza di reazioni
del pubblico inebetito. Alla fine il critico
avanza l’ipotesi che il film racchiuda una
sottile allusione politica: Attilio, come Bush,
è un narcisista incompetente che piomba in
Iraq con un bagaglio di pessime intenzioni e
scarse informazioni. Ma poi lui stesso ammette
che la metafora non funziona – non sarà il
romanticismo a far uscire il presidente dal
groviglio iracheno – e comunque, conclude
Halter abbandonando ogni barlume di speranza,
Benigni non è Borat.
Anche sul San Francisco Chronicle vanno
giù pesante: è “uno dei film peggiori del
2006”, la storia è talmente priva di senso
che “bisogna vedere il film per crederci”. Il
verbo più usato negli articoli è to annoy, la
cui comprensione è immediata per gli italiani,
anche se il significato ha a che fare
più con il fastidio che con la noia. Il termine
si converte addirittura in una categoria
cinematografica: Pam Grady, di Reel.com,
non riesce a capire come, dopo “Pinocchio”,
il “cinema of annoyance” del regista italiano
trovi ancora chi lo distribuisce negli States.
“Onestamente, quanto il pubblico può
ancora sopportare? Lo stile comico di Benigni
è l’equivalente filmico di un trapano da
dentista: irritante e doloroso”. Il fatto che
Attilio rischi la pelle per la sua donna, girando
per Baghdad allo scopo di trovare i
necessari farmaci salvavita, dovrebbe illustrare
una devozione senza limiti, ma, obietta
la Grady, il modo povero e sciatto in cui il
regista ha ricostruito la città, rende la capitale
irachena non più stressante e pericolosa
di una Roma invasa dal traffico. L’ego
straripante del protagonista lo fa cieco ad
ogni tragedia che non lo riguardi direttamente,
e il film sfiora la guerra senza mai
considerarla davvero. Ma anche se la sceneggiatura
di Cerami e Benigni volesse puntare
tutto sulla costruzione di una potente
vicenda d’amore, avrebbe fallito: il “mosquito-
like” Attilio e la comatosa Vittoria
(che quando è cosciente “non è molto più vitale”
di quando è in stato vegetativo) non sono
personaggi credibili ed emozionanti.
Potremmo andare avanti con le recensioni
del New York Times (“un affronto bruciante
all’intelligenza degli italiani, degli
iracheni e di tutto il pubblico cinematografico”),
New York Post (“Il solo premio che
Benigni potrebbe vincere con questo sconclusionato
e noioso ‘La tigre e la neve’ è
quello come peggior film dell’anno”), Los
Angeles Times (“insensato e senza vergogna,
del tutto prevedibile e crudelmente noioso”)
senza cambiare il tono liquidatorio e infastidito
del discorso. In realtà il critico del Los
Angeles Times, Kevin Thomas, almeno rende
omaggio ai tempi passati, quando Benigni
era “una delizia” nei film di Jim Jarmush,
o nella “Voce della luna” di Fellini. Ma
dall’epoca della sua “zuccherosa fantasia
sull’olocausto”, il regista “ha affogato la sua
capacità di pathos nel ridicolo: il suo ‘Pinocchio’
era straziante”. Con quest’ultimo film
“Benigni si conferma come il più insopportabile
e autoindulgente esibizionista dello
schermo.” Thomas ha accenti nostalgici ma
non arretra di un millimetro dal feroce giudizio
conclusivo: “C’era una volta qualcosa
di eroico in quest’uomo fisicamente poco attraente
che affrontava il mondo per inseguire
il suo sogno. Ma ormai ha ceduto al peggior
nemico di un attore, l’autoesaltazione.
Non sembra possibile che una pellicola con
il formidabile Jean Reno e con Tom Waits
sia completamente da buttare, eppure ‘La
tigre e la neve’ lo è”.
Su una guida ai film in uscita (Coming-
Soon.net) Edward Douglas accenna a un
problema che comincia ad essere oggetto di
indagine: “Quando si arriva al dunque, l’impresa
di Benigni di cercare comicità nel
mondo islamico fallisce, perché è uno sforzo
male indirizzato”. La questione è interessante:
è la collocazione in un mondo che non sa
ridere, nel mezzo di una guerra che non fa
ridere, il motivo per cui il film non è divertente?
O la colpa è solo di Benigni? Sul blog
di Reverse Shot, rivista di cinema, non hanno
dubbi. “Lo stronzo ha fatto un altro film”
è il sintetico titolo del commento di apertura.
Della “Vita è bella” si parla come di
“un’impostura buonista che nel lontano inverno
del ’98 ha imbrogliato milioni di spet-
Vite parallele
Jean-Pierre faceva rivivere il
mondo antico, Arthur scioglieva
i misteri che legano corpo e mente
Chirac e Sarko
Le ultime due settimane
di punzecchiature del presidente
al candidato del suo partito
tatori, molti dei quali non avevano mai visto,
prima di allora, un film sottotitolato”. L’autore
di quell’impostura “sta per sguinzagliare
il suo nuovo film contro un pubblico senza
sospetti”. “La tigre e la neve” è “un peana
al potere rigenerante dell’arte, e all’abilità
di un uomo di trasformare i mali del
mondo nel suo personale parco giochi di levigati
luoghi comuni in stile disneyano”.
Le colpe che si imputano al film non sono
politiche, nonostante il regista, scegliendo la
guerra irachena come ambientazione, abbia
rischiato di toccare qualche nervo scoperto.
Solo Ken Fox, di Tv Guide’s Movie Guide, accusa
Benigni di comporre “immagini artificiose,
vuote come le sue convinzioni politiche”;
al massimo c’è chi si stupisce di una
preghiera rivolta dal protagonista ad Allah
per la salvezza dell’amata, mentre qualcun
altro puntigliosamente nota che la Braschi,
essendo europea, non avrebbe dovuto essere
ricoverata nell’improbabile e sguarnito
ospedale iracheno. Il generale fastidio dei
critici nasce dal narcisismo debordante dell’attore,
e dalla ripetizione di uno schema
narrativo giudicato ormai prevedibile e senza
forza inventiva. Impietosamente si sottolinea
come Benigni stia troppo tempo in mutande
(lo notano almeno un paio di recensori),
come la funzione della donna sia soltanto
quella di assistere inerte alle logorroiche
tirate comiche del protagonista (e dunque il
coma e lo stato cosciente si equivalgono), come
il ruolo salvifico dell’amore, della bellezza,
della poesia sia proposto in modo meccanico
e pedestre.
Anche “La vita è bella” aveva eserciti di
detrattori, e oggi, curiosando sul web, capita
di trovare il titolo in certe classifiche alla
Nick Hornby di alcuni blogger ( come “I 10
peggiori film di tutti i tempi”), ma chi ha fatto
i conti ha rilevato come negli Usa le recensioni
del film che ha vinto l’Oscar gli attribuissero
un punteggio medio alto, mentre
con “La tigre e la neve” la situazione si è rovesciata,
e i voti oscillano intorno a 1 o 2 decimi:
un bel record.
In Italia, naturalmente, le cose sono andate
in tutt’altro modo, e anche se dalle recensioni
non trapelava uno scoppiettante entusiasmo,
il film ha incassato consensi. Sarà vero,
come leggo ancora su Reverse Shot, che
“La tigre e la neve” si rivolge a un pubblico
di “cretini del vecchio mondo che non hanno
visto un buon prodotto nazionale da circa
due decenni” e che scambiano “mancanza di
gusto e di tatto per irriverenza”? Per chi viene
da Venere, e ritiene di possedere gusti sofisticati
al confronto dei rozzi consumatori di
film hollywoodiani, il dubbio che l’autore del
pezzo abbia qualche ragione, apre un piccolo,
fastidioso spiraglio di incertezza.
From "Il Foglio", January, 23, 2007

Friday, January 12, 2007

Il bel pensiero di Elio Antonucci


Sono passati otto mesi circa dall’insediamento dell’esecutivo guidato da Romani Prodi. Votata a stento la manovra economica (e grazie esclusivamente al voto dei senatori a vita, non eletti dal popolo), un solo, preminente, tema politico sull’agenda parlamentare: la riforma della legge elettorale. C’è da restare sgomenti. Con l’Italia che abbisogna di rilancio economico, di fiducia alle imprese, di liberalizzazioni (quelle vere, non quelle del post – comunista Bersani), cosa fa la sinistra? Si impantana nella guerra tra proporzionalisti e maggioritari. Come se il cittadino medio altro non avesse da fare che pensare a quelli in alto, tanto in alto, che si fronteggiano per accaparrarsi un sistema capace di spartire meglio il potere. Tanto le tasse le paghiamo noi, mentre lor signori si trastullano a spese dello Stato (e quindi di noi contribuenti) negli sfarzi della reggia di Caserta. Vorremmo sentir parlare di sicurezza, assaliti come siamo, da violenze quotidiane nelle nostre città e da frotte di romeni che spingono ai confini del Bel Paese. Ma i capi e capetti di rosso vestiti hanno altro a cui pensare. Devono restare a galla, devono decidere come redistribuire i mega introiti della Finanziaria tra le mille clientele dei loro apparati, sparsi nei sindacati, tra gli statali, nelle regioni rosse e nella cloaca meridionale, che ha fatto, proprio del clientelismo, l’unico strumento di consenso politico.
I presunti riformisti dell’Unione parlano da mesi ormai di “Fase 2”, ma forse sarebbe più corretto parlare del “Prodi 2, la disfatta”. Di riforme, infatti, non se ne è ancora sentito parlare se non per l’appunto di quella sulla legge elettorale. Desta stupore, tra l’altro, che se ne discuta a nemmeno un anno dalle ultime politiche. Introdurre infatti un nuovo sistema di voto altro non farebbe che delegittimare l’attuale Parlamento. La conseguenza più probabile sarebbe quella i traghettare nel giro di un anno il Paese a nuove elezioni. Chi ci sia dietro queste mosse è facile intuirlo. I Ds mal digeriscono la situazione di stallo in cui è precipitato il Governo. I sondaggi sono disastrosi e stiamo parlando di sondaggi fatti da società vicine alla sinistra. L’unica via di uscita è rappresentata da elezioni anticipate, per frenare l’emorragia di consensi e cambiare leadership. Si fa avanti la figura di Veltroni, ma non crediamo che D’Alema resterà a guardare,dopo essere stato umiliato nella corsa alla Presidenza della Repubblica. Nel frattempo il Paese arranca, in attesa del rilancio economico, con tutte le categorie produttive umiliate da decine e decine di nuove tasse. Questa è la sinistra al potere. Questa la sua filosofia: il bel pensiero prodiano.

Thursday, January 11, 2007

Anche i sondaggi della sinistra danno in vantaggio la Cdl

Nuova mazzata per il Centrosinistra dai sondaggi. E questa volta a dirlo non sono i numeri annunciati dal portavoce di Berlusconi Paolo Bonaiuti. Secondo una ricerca realizzata dall'istituto Ekma, infatti, attualmente la Casa delle Libertà (47,5%) supera l'Unione (45,4%) anche senza l'Udc, che scivola al 5,5% dal 6,8 delle Politiche di aprile. La somma dell'opposizione arriva al 53%. Nel Centrodestra Forza Italia vola al 30%, mentre Alleanza Nazionale arretra all'11,5%. Piccolo incremento per la Lega Nord (5%). Nella maggioranza crolla l'Ulivo (Ds + Margherita): 26% contro il 31,3 raccolto alle ultime elezioni. La Rosa nel Pugno sale al 3% e Rifondazione Comunista subisce una battuta d'arresto fermandosi al 4,5%. Stabili i Verdi (2,2%), mentre balza l'Italia dei Valori di Di Pietro (3,5%). In rialzo anche il Pdci al 2,7% e l'Udeur di Mastella al 2,5.
Il ministro più amato rimane D'Alema (40%, in calo), seguito da Rutelli con il 32%. Ultimo con il 17% Padoa Schioppa. La fiducia nel governo precipita dal 39% di dicembre al 30 di gennaio. Berlusconi resta stabile al 47%, in rialzo le quotazioni di Fini (34%) e di Casini (28%). Tra le cariche istituzionali il presidente Napolitano sale al 50% in termini di fiducia, fermi rispettivamente al 35 e al 34% Marini e Bertinotti.
From "Affaritaliani.it"

Wednesday, January 10, 2007

Non abusare della parola riforma


Il premier Romano Prodi, a chi, nella sua maggioranza, gli chiede d’affrontare ora, senza dilazioni, i problemi aperti, ha affermato che, per le riforme, ci sono cinque anni di tempo e che i governi seri lavorano su questo orizzonte. Si potrebbe obbiettare che ci sono casi in cui questo metodo ha poco senso. Ad esempio, il problema della riforma della scala mobile, che Craxi si trovò a fronteggiare, nei primi anni 80, non era risolvibile coi tempi lunghi. E certe liberalizzazioni ormai non possono più attendere. Tuttavia, è vero che, in certi casi, i tempi del riformismo possibile non sono immediati. Occorre seguire l’indicazione di Popper, per cui le riforme vanno attuate con una strategia gradualista “piecemeal”, per renderle compatibili con i problemi pratici di funzionamento. Ma ciò che accade ora è diverso. Vengono chiamati “riforme” dei provvedimenti d’ordinaria amministrazione. Di tale natura sono i due problemi, in cui il governo attuale s’è impelagato, per le pensioni: quello del cosiddetto “scalone” e quello dell’adeguamento dei parametri riguardanti il “rendimento” dei contributi via via versati, ai fini del calcolo delle future pensioni. Lo “scalone” è stabilito da una legge. Al riguardo non c’è niente da riformare. Si tratterebbe solo di applicare la norma. Quanto al calcolo dei rendimenti dei contributi per le future pensioni, che sono collegati alla crescita del pil e alla durata della vita media, la riforma Dini, varata alla fine del 1995, li aveva sovrastimati, per agevolare il consenso dei sindacati, che avevano, in precedenza, scioperato contro questa riforma, quando essa era di Berlusconi. Si era, così, stabilito, nella legge, che i parametri sarebbero stati riveduti, in base ai dati effettivi, dopo un decennio. Questo è scaduto nel giugno 2006. Ora si tratta di prendere atto di indici oggettivi, che non comporterebbero una discussione politica. Anche per la Tav Torino-Lione su cui il governo non sa come decidere, il termine “riformismo” è inapplicabile. E lo stesso per la controversia fra Di Pietro e Bruxelles, per il caso Abertis-Autostrade. A meno che si voglia definire come “riformista” la sua politica di blocco al capitale estero in Italia, in contrasto con le regole di libero mercato europee.

From "Il Foglio", January 9, 2007

Thursday, January 04, 2007

Dopo il Corriere, la Repubblica. Quando non c'è limite al ridicolo.


Non c'è limite al ridicolo. Dopo i sondaggi svitati del Corriere della Sera, vi invitiamo a leggere un nitido esempio di servilismo giornalistico. Questa volta l'autore è il blasonato vice - direttore del quotidiano romano. Pensavamo che, dopo aver scoperto il bluff della compagnia delle mortadelle sul record delle entrate statali e sul dimezzamento del debito pubblico, i sinistri provassero un po' di vergogna. Ma come la storia d'Italia ci insegna da oltre sessant'anni, sono senza pudore. Questa è l'informazione nostrana. Al tempo del buffone.


Wednesday, January 03, 2007

Non è mai troppo tardi per imparare di Elio Antonucci


Ma guarda un po’ cosa leggo sui giornali di stamane. I conti pubblici segnano un netto miglioramento rispetto allo scorso anno. Ma guarda un po’, si è registrato un aumento record delle entrate fiscali. Ma guarda un po’, la disoccupazione è scesa al minimo storico. Strano, perché fino al 9 aprile dello scorso anno il nostro Paese era alla canna del gas, in recessione economica, con gli utili delle imprese a zero, con le famiglie che non arrivavano nemmeno alla terza settimana del mese, con i precari costretti a mendicare per le strade. Ora scopriamo con sommo stupore che l’appena trascorso 2006 è stato un anno piuttosto positivo per l’economia italiana, che la crescita si è attestata ad un buon 1,8% e che il fatturato delle industrie è, nel complesso, in attivo. Oddio, oddio, oddio. Vuoi vedere che quel delinquente e farabutto di Tremonti ne ha azzeccata una? Macchè. Secondo le illuminanti tesi di Sergio Romano il merito è esclusivamente del sistema Italia, mentre l’illustre ministro Padoa Schioppa reclama a gran voce la paternità sua del risanamento economico, col placet di Dracula – Visco. Eppure da quel che mi risulta (ma sicuramente mi sbaglio) il Governo attualmente in carica ha varato da pochi giorni la sua prima Finanziaria, mentre le famigerate misure anti – evasione sono entrate in vigore solo a partire dal 1 gennaio 2007. Da ignorante credevo che lo stato dell’economia 2006 fosse ascrivibile al precedente esecutivo e che se le cose andassero bene o male la responsabilità fosse di Berlusconi e compagnia cantante. Ma adesso ho capito. Quando l’Italia zoppica la colpa è del centrodestra, quando l’economia è in ripresa il merito è di Prodi. E cosa pensare delle due principali agenzie di rating internazionali e del Fondo Monetario Internazionale quando bocciano senza mezzi termini la Finanziaria 2007 e declassano il nostro Paese? Che sono in malafede e prevenuti.
(Questo articolo è stato chiuso alle 10:53 a.m.)

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