Adesso è più profondo il fossato tra laici e Chiesa di Paolo Franchi
Aveva torto, dunque, don Giovanni Nonne, il viceparroco della chiesa di Don Bosco, dove la mamma, cattolicissima, di Piergiorgio Welby avrebbe voluto si svolgessero, domani, le esequie. A Welby il funerale religioso non viene negato perché la sua morte rappresenta «un caso troppo clamoroso», come pensava lui, ma perché ha «ripetutamente e pubblicamente» affermato la volontà di porre termine alla sua vita, come ha reso noto il Vicariato di Roma. Bontà sua, il Vicario partecipa al dolore dei congiunti, e non gli nega la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza, con ciò testimoniando, ci pare, che l’Onnipotente, se c’è, potrebbe essere più misericordioso delle note 2276-2283 e 2324-2325 del Catechismo. Ma tiene a chiarire come sia proprio per via della sua lucida determinazione che a Welby (anzi: al dott. Welby, come burocraticamente recita il comunicato stampa del Vicariato) sono inibite quelle esequie religiose che ormai vengono a concesse ai suicidi dei quali invece è lecito presupporre «la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso».Può darsi, anzi, è pressoché certo che, nei termini di un diritto canonico del quale non possiamo davvero spacciarci per esperti, le ragioni del Vicario siano assolutamente inoppugnabili. Da laici, non ci impicciamo, limitandoci a chiarire che quello di Welby non è un suicidio assistito. Ma è assai probabile pure che una decisione simile sia destinata a suscitare dolore e interrogativi pesanti anche tra i cattolici, se persino Calderoli chiede di cambiarla. Ed è sicuro che contribuirà non poco a scavare un fossato ancora più profondo tra i laici (non i mangiapreti, non i “laicisti” esasperati: semplicemente i laici, credenti o non credenti che siano) e una Chiesa di Roma evidentemente impegnata, per combattere la «marginalizzazione» cui teme esposti i suoi valori in un’Italia secolarizzata, a rimarcare soprattutto quanto la separa e quasi la contrappone allo spirito del tempo. Se così deve essere, così sia: saluteremo da laici l’eroe laico Piergiorgio Welby, e andremo avanti nella sua lotta, che adesso più che mai sentiamo nostra. Ma questo esito non era scritto. Anzi, era lecito sperare (spes contra spem) tutto il contrario. E cioè che la battaglia coerente, lucida e volutamente esemplare condotta da Piergiorgio Welby, riuscisse ad aprire - nella politica, nella medicina, nella cultura, nella società - una riflessione alta e approfondita; e la ricerca faticosa e appassionata di soluzioni condivise. Anche perché, come questo giornale ha cercato quotidianamente di testimoniare, la domanda che Welby ha rivolto e continua a rivolgere a tutti noi, e in primo luogo a chi esercita responsabilità politiche, non riguarda l’eutanasia, sulla quale soluzioni condivise sono evidentemente improponibili, ma, come ha ricordato giovedì il presidente Giorgio Napolitano nel suo messaggio alla signora Mina, «il problema della sofferenza estrema in caso di risorse a terapie che non possono garantire una ragionevole speranza di esito positivo». Risposte (a Welby, e anche al capo dello Stato) non ne sono arrivate. Continueremo a cercarle, senza timidezze e senza ipocrisia.P.S. C’è, diciamo così, freddezza, anche nell’Ulivo, verso i radicali che, nonostante stiano al governo, avrebbero esasperato, specie in questi ultimi, drammatici giorni, una vicenda già tragica. A noi viene solo da osservare che i radicali fanno i radicali. La sinistra, invece, non si sa bene cosa faccia.
From "Il Riformista", December 23, 2006
From "Il Riformista", December 23, 2006
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