Negli States è Benigni Flop
Nella bibbia delle ragazze dedite all’acquisto
compulsivo più che alla ricerca
del principe azzurro, “I love shopping” di
Sophie Kinsella, una gelida signora dei salotti
mondani sentenzia: “Non si è qualcuno
se non si è qualcuno negli Stati Uniti”. Roberto
Benigni qualche anno fa c’era riuscito.
Era qualcuno, laggiù dove tutti ti danno pacche
sulle spalle e ti chiamano per nome solo
quando davvero sei qualcuno, e allora incredibilmente
anche tu puoi dare pacche
sulle spalle e chiamare per nome gente come
Steven Spielberg o Robert De Niro. Indimenticabile
l’eccitato grido patriottico della
Loren – Roberto!!! – che lo proclamava vincitore
dell’Oscar per “La vita è bella”. Indimenticabile
per noi italiani, che a Benigni
tributiamo stanchi onori qualunque cosa
faccia o dica; già dimenticato per gli americani,
che alla seconda prova del regista dopo
il film sulla Shoah, hanno definitivamente
concluso di aver preso da noi e dalla Miramax
la classica “sòla”. La “tigre e la neve”,
uscito da pochi giorni negli Usa, è un
terrificante flop, che ha il merito di unire gli
americani in una sola voce: repubblicani e
democratici, favorevoli e contrari alla guerra
in Iraq, sostenitori del cinema indipendente
o della megaproduzione hollywoodiana,
wasp della sponda atlantica e multiculturali
di quella pacifica, il film non è piaciuto
a nessuno. Nemmeno i blog dei cinefili ne
parlano (o ne sparlano) granché, segno certo
che il disinteresse e la delusione hanno ormai
sepolto quell’esaltante e lontana notte
degli Oscar del ’99. Nei diversi siti di critica
cinematografica, lo spazio “scrivi qui il tuo
commento” resta desolatamente vuoto, e se,
cercando con accanimento, si trova qualcosa
in un forum, si scopre trattarsi in genere
di spettatori europei.
Il più dettagliatamente crudele è forse Ed
Halter del Village Voice, la rivista che fa tendenza
downtown. Titolo del pezzo, “La guerra
è bella”. Sottotitolo, “Bye bye Shoah, hello
Iraq: Baghdad subisce il trattamento Benigni”.
L’attacco è diretto e micidiale: “Il popolo
iracheno non ha sofferto abbastanza? Quasi
quattro anni di distruzioni, torture e caos,
un’occupazione spaventosamente malgestita,
e adesso una nuova infamia: servire da spalla
collettiva al sovreccitato regista-attore italiano,
Roberto Benigni, nel suo film incredibilmente
ottuso”. Il racconto della trama è
senza pietà. Benigni appare a Halter patetico
come poeta, irrealistico nella sua versione
saltellante del professore carismatico (impossibile
imitare Robin Williams), e francamente
molesto come corteggiatore: il comportamento
amoroso di Attilio, il protagonista, non
dovrebbe essere considerato indice di una
commovente ossessione romantica ma di una
grave psicopatologia. Le sofferenze dell’Iraq
servono come sfondo, per mettere in risalto il
coma di Nicoletta Braschi; guerra e rovine sono
solo un fastidioso ostacolo per Attilio, che
al capezzale dell’amata urla disperato: “Non
si muove! Non reagisce in nessun modo!”.
Halter nota malignamente che, a giudicare
dal silenzio annoiato che regnava alla proiezione
per la stampa, il lamento poteva riferirsi
anche alla preoccupante mancanza di reazioni
del pubblico inebetito. Alla fine il critico
avanza l’ipotesi che il film racchiuda una
sottile allusione politica: Attilio, come Bush,
è un narcisista incompetente che piomba in
Iraq con un bagaglio di pessime intenzioni e
scarse informazioni. Ma poi lui stesso ammette
che la metafora non funziona – non sarà il
romanticismo a far uscire il presidente dal
groviglio iracheno – e comunque, conclude
Halter abbandonando ogni barlume di speranza,
Benigni non è Borat.
Anche sul San Francisco Chronicle vanno
giù pesante: è “uno dei film peggiori del
2006”, la storia è talmente priva di senso
che “bisogna vedere il film per crederci”. Il
verbo più usato negli articoli è to annoy, la
cui comprensione è immediata per gli italiani,
anche se il significato ha a che fare
più con il fastidio che con la noia. Il termine
si converte addirittura in una categoria
cinematografica: Pam Grady, di Reel.com,
non riesce a capire come, dopo “Pinocchio”,
il “cinema of annoyance” del regista italiano
trovi ancora chi lo distribuisce negli States.
“Onestamente, quanto il pubblico può
ancora sopportare? Lo stile comico di Benigni
è l’equivalente filmico di un trapano da
dentista: irritante e doloroso”. Il fatto che
Attilio rischi la pelle per la sua donna, girando
per Baghdad allo scopo di trovare i
necessari farmaci salvavita, dovrebbe illustrare
una devozione senza limiti, ma, obietta
la Grady, il modo povero e sciatto in cui il
regista ha ricostruito la città, rende la capitale
irachena non più stressante e pericolosa
di una Roma invasa dal traffico. L’ego
straripante del protagonista lo fa cieco ad
ogni tragedia che non lo riguardi direttamente,
e il film sfiora la guerra senza mai
considerarla davvero. Ma anche se la sceneggiatura
di Cerami e Benigni volesse puntare
tutto sulla costruzione di una potente
vicenda d’amore, avrebbe fallito: il “mosquito-
like” Attilio e la comatosa Vittoria
(che quando è cosciente “non è molto più vitale”
di quando è in stato vegetativo) non sono
personaggi credibili ed emozionanti.
Potremmo andare avanti con le recensioni
del New York Times (“un affronto bruciante
all’intelligenza degli italiani, degli
iracheni e di tutto il pubblico cinematografico”),
New York Post (“Il solo premio che
Benigni potrebbe vincere con questo sconclusionato
e noioso ‘La tigre e la neve’ è
quello come peggior film dell’anno”), Los
Angeles Times (“insensato e senza vergogna,
del tutto prevedibile e crudelmente noioso”)
senza cambiare il tono liquidatorio e infastidito
del discorso. In realtà il critico del Los
Angeles Times, Kevin Thomas, almeno rende
omaggio ai tempi passati, quando Benigni
era “una delizia” nei film di Jim Jarmush,
o nella “Voce della luna” di Fellini. Ma
dall’epoca della sua “zuccherosa fantasia
sull’olocausto”, il regista “ha affogato la sua
capacità di pathos nel ridicolo: il suo ‘Pinocchio’
era straziante”. Con quest’ultimo film
“Benigni si conferma come il più insopportabile
e autoindulgente esibizionista dello
schermo.” Thomas ha accenti nostalgici ma
non arretra di un millimetro dal feroce giudizio
conclusivo: “C’era una volta qualcosa
di eroico in quest’uomo fisicamente poco attraente
che affrontava il mondo per inseguire
il suo sogno. Ma ormai ha ceduto al peggior
nemico di un attore, l’autoesaltazione.
Non sembra possibile che una pellicola con
il formidabile Jean Reno e con Tom Waits
sia completamente da buttare, eppure ‘La
tigre e la neve’ lo è”.
Su una guida ai film in uscita (Coming-
Soon.net) Edward Douglas accenna a un
problema che comincia ad essere oggetto di
indagine: “Quando si arriva al dunque, l’impresa
di Benigni di cercare comicità nel
mondo islamico fallisce, perché è uno sforzo
male indirizzato”. La questione è interessante:
è la collocazione in un mondo che non sa
ridere, nel mezzo di una guerra che non fa
ridere, il motivo per cui il film non è divertente?
O la colpa è solo di Benigni? Sul blog
di Reverse Shot, rivista di cinema, non hanno
dubbi. “Lo stronzo ha fatto un altro film”
è il sintetico titolo del commento di apertura.
Della “Vita è bella” si parla come di
“un’impostura buonista che nel lontano inverno
del ’98 ha imbrogliato milioni di spet-
Vite parallele
Jean-Pierre faceva rivivere il
mondo antico, Arthur scioglieva
i misteri che legano corpo e mente
Chirac e Sarko
Le ultime due settimane
di punzecchiature del presidente
al candidato del suo partito
tatori, molti dei quali non avevano mai visto,
prima di allora, un film sottotitolato”. L’autore
di quell’impostura “sta per sguinzagliare
il suo nuovo film contro un pubblico senza
sospetti”. “La tigre e la neve” è “un peana
al potere rigenerante dell’arte, e all’abilità
di un uomo di trasformare i mali del
mondo nel suo personale parco giochi di levigati
luoghi comuni in stile disneyano”.
Le colpe che si imputano al film non sono
politiche, nonostante il regista, scegliendo la
guerra irachena come ambientazione, abbia
rischiato di toccare qualche nervo scoperto.
Solo Ken Fox, di Tv Guide’s Movie Guide, accusa
Benigni di comporre “immagini artificiose,
vuote come le sue convinzioni politiche”;
al massimo c’è chi si stupisce di una
preghiera rivolta dal protagonista ad Allah
per la salvezza dell’amata, mentre qualcun
altro puntigliosamente nota che la Braschi,
essendo europea, non avrebbe dovuto essere
ricoverata nell’improbabile e sguarnito
ospedale iracheno. Il generale fastidio dei
critici nasce dal narcisismo debordante dell’attore,
e dalla ripetizione di uno schema
narrativo giudicato ormai prevedibile e senza
forza inventiva. Impietosamente si sottolinea
come Benigni stia troppo tempo in mutande
(lo notano almeno un paio di recensori),
come la funzione della donna sia soltanto
quella di assistere inerte alle logorroiche
tirate comiche del protagonista (e dunque il
coma e lo stato cosciente si equivalgono), come
il ruolo salvifico dell’amore, della bellezza,
della poesia sia proposto in modo meccanico
e pedestre.
Anche “La vita è bella” aveva eserciti di
detrattori, e oggi, curiosando sul web, capita
di trovare il titolo in certe classifiche alla
Nick Hornby di alcuni blogger ( come “I 10
peggiori film di tutti i tempi”), ma chi ha fatto
i conti ha rilevato come negli Usa le recensioni
del film che ha vinto l’Oscar gli attribuissero
un punteggio medio alto, mentre
con “La tigre e la neve” la situazione si è rovesciata,
e i voti oscillano intorno a 1 o 2 decimi:
un bel record.
In Italia, naturalmente, le cose sono andate
in tutt’altro modo, e anche se dalle recensioni
non trapelava uno scoppiettante entusiasmo,
il film ha incassato consensi. Sarà vero,
come leggo ancora su Reverse Shot, che
“La tigre e la neve” si rivolge a un pubblico
di “cretini del vecchio mondo che non hanno
visto un buon prodotto nazionale da circa
due decenni” e che scambiano “mancanza di
gusto e di tatto per irriverenza”? Per chi viene
da Venere, e ritiene di possedere gusti sofisticati
al confronto dei rozzi consumatori di
film hollywoodiani, il dubbio che l’autore del
pezzo abbia qualche ragione, apre un piccolo,
fastidioso spiraglio di incertezza.
From "Il Foglio", January, 23, 2007
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