Rivoluzione Liberale

Editoriali,articoli e rassegna stampa di cultura liberale.

Saturday, March 24, 2007

Idiozia italica


Thursday, March 22, 2007

Delirio di onnipotenza


Il «Grande gioco» tra Russia e Gran Bretagna per il controllo dell’Afghanistan era una cosa molto seria, che ebbe profonda influenza sugli equilibri politici dell’Ottocento. Il «Grande gioco» all’italiana, l’invenzione con cui Prodi e D’Alema - magari con la collaborazione di Gino Strada - cercano da un lato di fare le mosche cocchiere in Afghanistan e dall’altro di tenere buona la sinistra massimalista, rischia invece di finire, se non in burletta, in un imbarazzante buco nell’acqua. La partita era già arrischiata prima della vicenda Mastrogiacomo, perché la decisione del governo (ribadita l’altro ieri da D’Alema) di rifiutare la richiesta della Nato di potenziare il nostro contingente e di togliere i «caveat» che a tutt’oggi gli impediscono di partecipare ai combattimenti sul fronte sud avevano già notevolmente diminuito il nostro peso specifico sul territorio. Ora che, pur nel lodevole intento di riportare a casa sano e salvo l’inviato di Repubblica, abbiamo dovuto pregare il presidente Karzai di rilasciare ben cinque pericolosi capi Talebani (di cui uno è già tornato a combattere), regalando agli islamisti un notevole successo di immagine, il nostro potere negoziale è ulteriormente diminuito. Per giunta, abbiamo ritenuto opportuno affidarci in esclusiva a un mediatore, il dottor Strada, che si è senz’altro conquistato meritata fama di benefattore con i suoi osepadali, ma che è notoriamente un nemico del legittimo e democratico governo di Kabul, della Nato e degli americani. Infine, nell’ansia di riportare a casa il nostro collega, ci siamo dimenticati di garantire il rilascio anche del suo interprete, autorizzando così i giornalisti afgani a chiedere se la vita di un reporter italiano valga più di quella di un loro collega.Ma c’è di peggio: nel cedere al ricatto dei tagliagole del mullah Dadullah, che lo stesso Mastrogiacomo ha definito «pazzi e fanatici», abbiamo impresso al conflitto una svolta molto pericolosa: d’ora in avanti ogni giornalista e ogni cooperante occidentale sarà un bersaglio, in quanto potenziale moneta di scambio per la liberazione di altri terroristi. Americani, inglesi e tedeschi hanno condannato ieri con estrema franchezza il nostro comportamento. Quanto a Karzai, ha precisato che il caso del giornalista italiano resterà un unicum, ma nessuno dubita che i Talebani, esaltati dal successo ottenuto, torneranno a provarci alla prima occasione.Nonostante questi scheletri nell’armadio, Massimo D’Alema si è presentato martedì al Consiglio di Sicurezza dell’Onu con il piglio del protagonista, chiedendo di imprimere a un conflitto che sta divampando in tutta la sua ferocia quella «svolta pacifista» richiesta dai suoi alleati dell’estrema sinistra per dare luce verde al rifinanziamento della missione. Fare la guerra, ha detto il ministro, non serve «senza un rapido e solido progresso nelle condizioni di vita della popolazione» e «senza il pieno coinvolgimento dei Paesi vicini», che sarebbero poi l’Iran di Ahmadinejad e il Pakistan che, per la debolezza del governo centrale, ha praticamente lasciato le sue province di confine in mano a Bin Laden e ai Talebani. Al centro del suo intervento c’era la proposta della convocazione di una conferenza di pace, che né Karzai, né l’America, né la Gran Bretagna vogliono, e che non si capisce che utilità possa avere, perché con i terroristi non c’è nulla da negoziare. Perfino un giornale amico come il Corriere ha usato, per il piano dalemiano, espressioni come «ai limiti del verosimile», «temerario» e «facili velleitarismi». Per fortuna, D’Alema ha avuto il pudore di non rilanciare la proposta di Fassino, osannata dalla sinistra massimalista, di invitare al tavolo i Talebani. Ma l’eco di quella dichiarazione era già arrivata a New York, e ieri ha attirato dagli alleati commenti quasi sarcastici. L’immagine che diamo è quella di un Paese che, pur avendo un ruolo secondario e volutamente circoscritto, pur avendo appena inferto un brutto colpo alla credibilità della coalizione, pur essendo vistosamente in debito con Karzai e gli americani, pretende - in una specie di delirio di onnipotenza - di dettare ai veri protagonisti un cambiamento di strategia. Sarebbe bene che Prodi & C. facessero un esame di coscienza e si affrettassero a inviare al contingente italiano quelle armi pesanti di cui avrà bisogno non se, ma quando, la guerriglia arriverà alla nostra zona di competenza.

From: "Il Giornale", March 22, 2007

Wednesday, March 21, 2007

Governo a zig - zag di Luca Ricolfi



Un anno fa, in piena campagna elettorale, quando i conti erano ancora in profondo rosso, il centro-sinistra aveva promesso la riduzione del cuneo fiscale a lavoratori dipendenti e imprese entro un anno (10 miliardi di euro), l’abolizione del cosiddetto scalone (9 miliardi di euro) e soprattutto di non aumentare le tasse. Invano alcuni studiosi avevano fatto notare che nella migliore delle ipotesi si poteva sperare di aumentare i salari più bassi e che il primo problema di un eventuale governo di centro-sinistra sarebbe stato il debito occulto delle grandi opere (più di 10 miliardi all’anno secondo i calcoli dell’Osservatorio del Nord-Ovest). Questo succedeva fra gennaio e marzo del 2006, quando ancora pochissimo si sapeva del favorevole (e imprevisto) gettito fiscale di quegli stessi mesi.Poi, ad aprile, l’Unione vince le elezioni e fa mostra di scoprire - improvvisamente - che la situazione dei conti pubblici è drammatica, e quindi tutte le promesse vanno riviste (o «rimodulate», come piace dire ai politici quando non hanno il coraggio di raccontarci la verità). Il governo incarica un’apposita Commissione di fare luce sullo stato dei nostri conti: è la famosa due diligence, che dovrebbe mettere a nudo la catastrofica eredità di Tremonti. E qui succede qualcosa di davvero notevole, mentre i quotidiani si riempiono di titoli che sottolineano il «boom delle entrate fiscali». La Commissione e il governo, anziché rivedere in senso ottimistico le previsioni sul deficit ereditate da Tremonti (3.8% del Pil), fanno esattamente il contrario e le rivedono in senso pessimistico: secondo la relazione finale presentata al ministro dell’Economia, il deficit del 2006 non si sarebbe fermato al 3.8% ma sarebbe salito a un livello compreso fra il 4.1% e il 4.6% (ora sappiamo che, alla fine della storia, il deficit del 2006 risulterà appena del 2.4%, al netto delle una tantum). Questa visione, inspiegabilmente pessimistica, viene pienamente recepita nel Documento di programmazione economica di luglio, e fornisce la base per la «stangata» che attende gli italiani con la Finanziaria del 2007. Poiché le divisioni della maggioranza non consentono di incidere in modo apprezzabile sulla spesa pubblica né di ridurre gli sprechi, e inoltre ogni ministro reclama risorse per le proprie politiche, comincia il grande dietro-front: il problema pensioni viene accantonato, la riduzione del cuneo fiscale alle imprese viene attenuata e dilazionata (sarà a regime solo nel 2008), i famosi 350 euro in più in busta paga affluiscono nelle tasche di appena 1 lavoratore su 4, la pressione fiscale complessiva aumenta. A gennaio di quest’anno, di fronte a un boom delle entrate che continua, quasi tutti hanno capito che con la Finanziaria 2007 si è esagerato e che la pressione fiscale è stata portata a un livello pericoloso, che rischia di strangolare quel poco di ripresa che il 2006 ha regalato all’Italia. Nonostante tutto ciò, e a scanso di equivoci, il ministro dell’Economia non perde occasione per ribadire che di riduzione della pressione fiscale non si parla prima del 2009.Ma non è finita. Tra febbraio e marzo i nostri governanti cambiano di nuovo idea: forse abbiamo esagerato, forse abbiamo spremuto un po’ troppo gli italiani. C’è un bonus fiscale, ci sono quattrini da ridistribuire (una decina di miliardi). Nel giro di pochi giorni sul tavolo del governo affluisce ogni genere di richiesta, compresa quella di abolire l’Ici sulla prima casa. Un provvedimento tutt’altro che insensato, ma che appena un anno prima - annunciato da Berlusconi in chiusura della sua campagna elettorale - era stato oggetto di un impressionante fuoco di sbarramento, con la Cgil che dichiarava che avrebbe favorito «ancora una volta i ricchi» e Prodi che, con il consueto fair play, si appellava all’intelligenza degli italiani: «Gli elettori non crederanno mica alle balle».A questo punto della storia la rotta è di nuovo cambiata. Grazie all’ipotesi di abolizione dell’Ici si ricomincia a parlare di riduzione delle tasse, forse già dal 2007. Nessuno si sbilancia più di tanto, ma il tabù è caduto. Persino il ministro Padoa-Schioppa, che fino a poche settimane fa escludeva qualsiasi riduzione delle aliquote prima del 2009, prende ora in seria considerazione l’ipotesi di ridurre le imposte sulle imprese, per favorire lo sviluppo e attrarre investimenti stranieri. Niente più abolizione della tassa sulla casa (Ici), dunque, ma riduzione progressiva dell’imposta sulle società (Ires), una delle più alte dell’eurozona.Non passano ventiquattro ore da queste caute aperture del ministro dell’Economia e il presidente del Senato non resiste alla tentazione di dire anche lui la sua: le tasse vanno sì ridotte (ma non le avevate appena aumentate?), e tuttavia non basta farlo per le imprese, occorre farlo anche per le famiglie. Domani, con quasi tre mesi di (ulteriore) ritardo sugli impegni presi a suo tempo, partirà il cosiddetto «tavolo sulle pensioni», che doveva finire i suoi lavori alla fine di marzo (per i dettagli vedi la nuova rubrica «Conto alla rovescia» a pagina 35). Vedremo quali altre sterzate ci attenderanno nelle prossime settimane, anche in vista delle elezioni amministrative di maggio (più di 10 milioni di cittadini al voto). Il governo, naturalmente, ha tutto il diritto di decidere su che rotta vuole condurre la barca dell’Italia. Può fare come la Merkel (caute riforme del Welfare più sgravi fiscali alle imprese), può fare come ha fatto fin qui (più tasse e più spese), può fare come aveva promesso (riforme, meno sprechi, meno tasse), può persino inventarsi una politica economica completamente nuova. Però deve dircelo, deve farci capire dove siamo diretti. Non soltanto perché, dopotutto, è ai cittadini che un governo risponde, ma perché l’incertezza, i segnali contraddittori, i falsi annunci, il continuo dire e contraddire, fare e disfare - insomma questo continuo governare a zig-zag - danneggiano l’economia del Paese e deprimono il morale delle persone.

From: "La Stampa", March 21, 2007

Tuesday, March 20, 2007

Caso Sircana (secondo Il Foglio)


Il nome della legge di Pietro Ichino


La sera del 19 marzo di cinque anni fa Marco Biagi è stato ucciso in un agguato squadristico sulla porta di casa. Dopo cinque anni, la ricorrenza produce ancora polemiche e contrapposizioni. Questo vero e proprio imbarazzo della società civile democratica, perdurante a tanta distanza di tempo nonostante l' universale esecrazione dell' assassinio, conferisce a quell' evento una valenza politica peculiare e può considerarsi come un piccolo ma durevole successo della strategia dei terroristi. Se vogliamo battere quella strategia, non possiamo dunque eludere questo problema. C' è un primo dato, marginale solo in apparenza, dal quale la riflessione può prendere le mosse: ancora oggi nello schieramento di centrosinistra prevale nettamente il rifiuto di chiamare la legge scritta da Marco Biagi con il suo nome. Non solo la sinistra radicale, ma anche i Ds - con la sola eccezione, va detto, di Walter Veltroni - continuano a chiamarla «legge 30», con questa motivazione: «Biagi era una persona troppo intelligente e per bene per poter scrivere una legge contro i lavoratori come questa». E il rifiuto perdura anche dopo che si è constatato, dati alla mano, che questa legge non ha cambiato sostanzialmente nulla della protezione del lavoro stabile e, quanto al lavoro precario, negli ultimi cinque anni la sua quota complessiva non è affatto aumentata. È accaduto invece che il ministro del Lavoro del governo Prodi, per dare un giro di vite contro il precariato nei call center, abbia emanato una circolare che fa leva proprio sulle norme contenute in questa legge; ma questo non impedisce che lo stesso ministro, nella prefazione a un libro uscito pochi mesi or sono, indulgendo a un deplorevole vezzo lessicale della vecchia sinistra, si senta in dovere di indicarla come una «controriforma» del lavoro. Come dire: «Vere riforme sono solo quelle che facciamo noi»; per esempio il «pacchetto Treu» del 1997. Ma il tempo è galantuomo; e i fatti mostrano che la legge Biagi non è altro se non uno sviluppo della riforma Treu del 1997, che anzi la flessibilizzazione più rilevante del mercato del lavoro è stata proprio quella recata dalle leggi del 1997. Il fatto è che ammetterlo sarebbe politicamente rovinoso per l' assetto attuale della sinistra: significherebbe trovarsi nella scomodissima alternativa tra riconoscere di avere gravemente sbagliato nel demonizzare per cinque anni la riforma Biagi e il suo autore, oppure rinnegare la riforma Treu. Ora, rinnegare la riforma Treu non è possibile, poiché essa fu varata dall' intero schieramento di sinistra, sulla base di un accordo pieno con l' intero movimento sindacale, Cgil compresa. Accade così che, inchiodata all' errore di faziosità commesso per tutta la scorsa legislatura, l' attuale maggioranza non possa permettersi una verifica aperta e trasparente su questo punto: per non spaccarsi, per sopravvivere, è condannata a negare l' evidenza. Fin qui, sarebbe solo una questione di tattica politica; ma la questione è più profonda. Anche oggi che le accuse mosse alla legge Biagi - quelle di spalancare le porte al precariato, o di «smantellare il diritto del lavoro» - si sono sciolte come neve al sole (al punto che nel documento presentato da Cgil, Cisl e Uil al governo nei giorni scorsi per l' avvio della concertazione sulle politiche del lavoro non si fa alcun cenno neppure a una modifica di quella legge), perdura pur sempre a sinistra una paura di fondo verso la parte essenziale del contributo politico-culturale del giuslavorista bolognese: una coazione a prenderne le distanze come se si trattasse di cosa infetta. * * * a Cinque Anni dall' Omicidio Marco Biagi, il nome della legge di PIETRO ICHINOSEGUE DALLA PRIMAdi PIETRO ICHINOSEGUE DALLA PRIMA La paura che paralizza la sinistra è la stessa che la portò a stendere intorno a lui, quando era ancora in vita, una sorta di «cordone sanitario» politico-culturale, di cui Marco ha molto sofferto negli ultimi anni della sua vita: è la riluttanza ad aprire gli occhi sulle macroscopiche disfunzioni del nostro sistema, che egli metteva in evidenza attraverso il confronto con i sistemi dei nostri partner europei più evoluti. Quella di oggi è la stessa sinistra che, come allora, non riesce a scuotersi di fronte a un sistema di relazioni sindacali che funziona sempre peggio, nel quale il rinnovo dei contratti collettivi nazionali è diventato ormai da molti anni uno psicodramma in tutti i settori chiave, da quello metalmeccanico a quello giornalistico, dal lavoro statale ai servizi pubblici: la spiegazione preferita è sempre quella del «padrone cattivo» che non rispetta il «diritto dei lavoratori al contratto», perché è la spiegazione che consente di non rimettere in discussione la struttura stessa della contrattazione collettiva, fortemente centralizzata, rimasta immutata da mezzo secolo nonostante lo sconvolgimento del contesto economico. Quella di oggi è la stessa sinistra che da decenni non riesce a scuotersi, ed è totalmente afona, di fronte a un sistema di relazioni sindacali nel quale - caso unico al mondo! - ciascuno dei comparti del trasporto pubblico è bloccato da uno sciopero mediamente una volta al mese, anche subito dopo che il contratto è stato faticosamente rinnovato. È la stessa sinistra che, per paura di mettere in discussione la propria politica del lavoro dell' ultimo quarantennio, dà del visionario a Marco Biagi quando denuncia quello italiano come il «mercato del lavoro peggiore del mondo»: peggiore non per il tasso di lavoro precario, che è più o meno in linea con il resto d' Europa, ma per il maggior tasso di disoccupazione permanente, di lavoro nero, di esclusione dal lavoro di donne, giovani e anziani. È la stessa sinistra che non mostra neppure un sussulto di fronte allo scandalo di un' amministrazione pubblica in cui i dirigenti di fatto non rispondono se le strutture affidate loro sono del tutto inefficienti, e in cui agli impiegati è consentito di azzerare, se vogliono, la propria prestazione senza essere licenziati; o di fronte allo scandalo dei milioni di giornate di «malattia» di nullafacenti sani come pesci, certificate da medici irresponsabili, forti dell' immancabile copertura del loro ordine professionale. E l' elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Va anche detto che su tutti questi temi la nostra destra non è più reattiva della sinistra: anzi, brilla attualmente per la sua mancanza pressoché totale di proposte e di iniziativa politica. Anche perché, a ben vedere, il suo schieramento è attraversato da una profonda crepa interna molto simile a quella che attraversa lo schieramento di sinistra, tra conservatori e riformatori. E quanto poco essa sentisse Marco Biagi come un proprio uomo è dimostrato dal volgare insulto rivoltogli davanti alle telecamere, tre soli mesi dopo la sua morte, da un ministro degli Interni del governo Berlusconi. Ma, insieme a questo e a qualche altro non secondario demerito in campi diversi, sul terreno della politica del lavoro la destra ha avuto il merito di aprirsi alle idee e alle elaborazioni di Marco Biagi, nonostante che esse si ponessero esplicitamente in continuità con un discorso avviato dal precedente governo avverso. Questo è infatti il punto: sul terreno della politica del lavoro, oggi, la contrapposizione tradizionale fra destra e sinistra ha sempre meno senso, le linee di demarcazione tra i veri interessi in gioco sono profondamente cambiate rispetto agli schemi prevalenti del secolo scorso e del precedente. Marco Biagi lo aveva capito; e questo è il «reato» per il quale cinque anni fa i terroristi lo hanno condannato a morte senza processo.

Intervista a Silvio Berlusconi

Lei ha scritto una grossa sciocchezza sul mio conto», esordisce Silvio Berlusconi per telefono. A quale si riferisce, Presidente? «Che per paura di perdere le prossime elezioni amministrative io avrei deciso di non politicizzarle».Così riassumono il suo pensiero... «E’ l’esatto contrario. Ma come potrei io, da persona mediamente intelligente, credere che sia più conveniente arrendersi senza combattere? Forse lei ritiene che in questo caso i vostri giornali, la sinistra, tutti quanti, rinuncerebbero ad addossare una sconfitta a noi e a me in particolare? Me la farebbero pesare in ogni caso».Quindi?«Quindi, tanto vale che io cerchi di limitare i danni. E se nel voto locale io non porto un significato nazionale, vado a prendere molti meno voti».Com’è possibile che, col vento in poppa, rischiate addirittura di perdere le amministrative?(Lungo sospiro) «Perché si ha sempre a che fare con gli egoismi dei partiti. Invece di scegliere il miglior candidato possibile, qualche volta antepongono il loro interesse, e mandano avanti il nome sbagliato».Sta succedendo questo? «In certe città abbiamo dovuto accettare dei candidati frutto della volontà degli altri partiti. Non in tutte, per fortuna. Comunque io andrò a fare campagna anche per loro».Scenderà in campo lei personalmente?«Ripeto: è mia intenzione politicizzare al massimo la campagna amministrativa. Per far sì che il 57 per cento attribuito al centro-destra dai sondaggi conti anche nelle elezioni dei sindaci e dei presidenti di Provincia. Tenterò di convincere i cittadini a esprimere un voto in sintonia con quanto pensano della politica nazionale».Niente tatticismi, stavolta...«Il tatticismo in qualche caso sono costretto a usarlo per tenere insieme la nostra coalizione, alla quale i personalismi di qualche alleato (quale? potete immaginare) stanno facendo danni enormi... Per esempio, nell’ultima gestione della crisi: mi sono dovuto muovere in modo diverso da come l’istinto mi suggeriva».D’istinto cosa avrebbe fatto?«Avrei voluto gridare “elezioni elezioni”. E se non me le davano, “in piazza in piazza”. Questo è quanto chiedeva la mia gente, che della politica parlata prova ormai un senso di autentico disgusto. Tanto che ormai non vado più nemmeno in televisione».Non sarebbe stato un discorso da leader moderato... «Quando c’è di mezzo la libertà di tutti, io non sono mai un moderato. Divento un radicale. Poi però i soliti leader degli altri partiti della coalizione (eccetto la Lega, che stava dalla mia parte) si sono messi a dire: “No, se parli di elezioni poi nessuno dei loro senatori passa di qua...”. Io ho risposto: “Guardate che nessuno di loro verrà da noi lo stesso, perché sono tutti minacciati e guardati a vista”»Risultato?«E’ andata come prevedevo. E, quel che è peggio, dal Presidente della Repubblica l’opposizione si è presentata divisa».Per cui Napolitano non ha sciolto le Camere... «Forse non avrebbe cambiato parere, perché fin dall’inizio era orientato a rimandare Prodi davanti al Parlamento. Solo che a quel punto gli è stato gioco facile dire: “Siete venuti qui da me con delle posizioni diverse, dunque...”».D’ora in avanti cosa farete?«Tutto quanto può metter fine nel più breve tempo a questo governo che fa male all’Italia, comportandosi come si sta comportando in politica interna e in quella internazionale».Per andare alle elezioni?«Certo, per andare al voto».Con questa legge elettorale accusata di portare instabilità?«Guardi che la legge attuale non ha dato cattivi risultati. Se ci recassimo alle urne oggi, col 57 per cento che abbiamo, ci garantirebbe un margine di alcune decine di senatori a Palazzo Madama».Il piccolo problema è che le ultime politiche sono finite pari...«Sì. Intanto sono intimamente certo che ci hanno scippato la vittoria, che c’è stata un’attività professionale di brogli sviluppata in tutt’Italia. Ma a parte questo, un cattivo risultato l’ha data la frammentazione voluta dal Quirinale».Da Ciampi?«Contro il nostro parere. Noi volevamo introdurre al Senato il premio di maggioranza su base nazionale, la Presidenza della Repubblica si era opposta sostenendo che doveva essere regionale. Al punto che avevamo proposto: togliamolo del tutto. Comunque è una legge con cui si può andare tranquillamente a votare. Riteniamo che il problema della riforma elettorale sia piuttosto una scusa di lorsignori».Accetterà di incontrare Prodi? «Nessuno ne ha mai parlato».I «pontieri» però insistono...«Ma quali ponti o pontieri! Abbiamo deciso che all’incontro andranno i nostri due capigruppo, punto e basta».Se la legge andasse per forza migliorata, dove comincerebbe? «Dallo sconcio di 22 partiti che ci fanno ridicoli agli occhi delle altre democrazie europee e occidentali. Se proprio volessimo rendere la legge ancora migliore, allora metteremmo una seria soglia di sbarramento».Del 5 per cento? «Del 5, del 4, qualcosa del genere».Come esiste già in Germania? «No, io non sono d’accordo col sistema tedesco. Certo, come Forza Italia, quel modello ci converrebbe. In quanto là è il partito di maggioranza relativa che ottiene il Cancelliere. Ed è il perno centrale, di cui non si può fare a meno per nessuna ragione».In che senso non se ne può fare a meno?«Non sarebbe pensabile che con Forza Italia al 33 per cento, come dicono i sondaggi, i partiti della sinistra possano scavalcarla e mettersi d’accordo con altri partiti del centro-destra. Mi spiego?»Eccome. «Né sarebbe immaginabile che preferiscano accordarsi con la sinistra estrema piuttosto che con Forza Italia, liberale ma moderata».Se il sistema tedesco vi calza così bene, presidente Berlusconi, perché allora non lo adottate? «Perché, diciamocelo chiaro: sarebbe un ritorno all’indietro. A quando i cittadini entravano nella cabina elettorale e votavano per un partito, senza sapere con chi si sarebbe poi alleato, e nemmeno quale programma avrebbe attuato. Sarebbe il trionfo dei vecchi arnesi della vecchia politica».

From: "La Stampa", March 21, 2007

Saturday, March 17, 2007

La gara di Montezemolo


Dopo la presa di Vicenza da parte del Cav. e quella di Palazzo Chigi da parte di Prodi, la Confindustria non è ancora riuscita a dotarsi di una chiara natura da soggetto politico, ma ha tentato di creare per sé il ruolo, in parte ovvio, di stimolo alle riforme e alla crescita. LCdM ha pure accolto una personale sfida lanciata da Prodi a chi è più liberalizzatore, gara culminata ieri con la decisione unanime dell’Assemblea degli industriali di portare il Sole in Borsa. Sempre ieri, Montezemolo, forte dei successi automobilistici, ha criticato alcune componenti della maggioranza “sempre più anti industriali”, ha ricordato che la concertazione serve se favorisce lo sviluppo, ha invitato il governo a non essere spendaccione, sottolineando che la ripresa “è il risultato di un grande sforzo degli imprenditori e di chi lavora nelle imprese, a cominciare dagli operai”, e ha morso il polso di una politica debole che, su Telecom, vuole “fare l’imprenditore”. A molti ministri sono fischiate le orecchie, anche perché se una politica debole non può fare l’imprenditore, forse un imprenditore può fare politica. C’è fermento tra i montezemoliani. Che farà LCdM, avviato il processo di successione e lasciato in eredità il ruolo di stimolo? Il suo pathos è un po’ freddo, ma un bottino c’è. Forse aspira a guidare l’Economia delle larghe intese; forse, invece di trasformare la Confindustria in soggetto politico, pensa di creare un soggetto politico appena fuori dalla Confindustria. Lui nega, ma gli auguri non si negano.
From: "Il Foglio"

Segolene Royal ed i futuri rapporti Usa - Francia



In just over two months, French voters will elect their next president. This election will be critical to the future of France domestically and to its standing in the world. France has lost significant economic and political power over the past decade and needs reform and reinvigoration. The new president must also seek to repair frayed ties with Washington. It is highly doubtful that this would happen under Ségolène Royal.
Royal, the Socialist presidential candidate has outlined a 100-policy presidential pact "for France to rediscover a shared ambition, pride, and fraternity."[1] Royal is frequently touted as the face of change, a breath of fresh air, a new start for France. But almost the opposite is true: Royal represents the status quo. She graduated from the École nationale d'administration, the institution that has bred an entire class of French political elites; she is instinctively protectionist and virulently anti-globalist;and in true Gaullist spirit, she is no friend of America.
Royal's Foreign Policy
A series of diplomatic blunders have left an indelible bad impression of French foreign policy under a Royal presidency.
In trips to the Middle East, the Far East, and South America, Royal could do no right on the diplomatic front. During her high-profile five-day Middle East trip in December, not only did she fail to react when Hezbollah legislator Ali Ammar compared Israeli actions in Lebanon to Nazism, but she even thanked him for "being so frank" when he described U.S. foreign policy in the Middle East as "unlimited American insanity."[2] Matched with other serious errors of judgment--such as praising China's justice system and calling for independence for Quebec[3]--Royal has lurched from one crisis to another in foreign affairs. As BBC correspondent Clive Myrie observed, "Segolene Royal's campaign has suffered a series of self-inflicted wounds."[4]
It is highly unlikely there would be a thaw in U.S.-French relations under a Royal presidency. In what can only be described as an opportunistic attack inspired by pure anti-Americanism, she pointedly criticized her closest rival for the presidency, Nicolas Sarkozy, during his successful trip to Washington in September 2006. "My diplomatic position will not consist of going and kneeling down in front of George Bush," Royal told the press.[5]Last month, she again harkened back to deep anti-American sentiment, condemning Sarkozy as a "clone of Bush" and "an American neo-conservative carrying a French passport."[6]
Royal continues to snipe from the sidelines about Operation Iraqi Freedom and advocates America's withdrawal from Iraq.[7] She believes that decisions about Iraq's transition should be made solely by the Iraqi government, barely concealing her implicit criticism of American involvement in the region.[8] During her keynote manifesto speech outlining her presidential platform, she not only acknowledged the divisions caused by France's vocal opposition to the war in Iraq, but even pledged to speak "louder and stronger."[9]
She has also made diplomatically crass comments about President Bush. "I do not mix up Bush's America with the American people," she has said. "The American people are our friends."[10]
Royal was scheduled to visit Washington in December 2006 but postponed the visit because she needed more time to "finalize the programme."[11] In reality, Royal has alienated not just the current U.S. administration but even natural allies such as Senator Hillary Clinton (D-NY).[12] It is therefore highly unlikely that there will be a Royal visit to Washington of any consequence before the French elections.
It is difficult to imagine a Royal presidency being anything other than a recipe for tense transatlantic relations. Royal's damaging international trips, matched with her failure to mend fences in Washington, are a realistic indication of what a Washington-Paris axis would look like under a Royal presidency.
Royal and the European Union
Royal's dedication and commitment to further European integration are hallmarks of her political inclinations. In her presidential pact Royal calls for a "reconstruction of a political Europe,"[13] and like French leaders before her, she is deeply wedded to Brussels' integrationist, protectionist, and interventionist policies. She believes that a full and enhanced EU constitution should proceed, including those elements inimical to American strategic interests, such as a Common Foreign and Security Policy, a single EU Foreign Minister, and an independent military procurement policy.
In fact, Royal's anti-Americanism drives her European policy as much as her enthusiasm for Brussels. A key motive for backing the European Constitution is to counterbalance what she sees as "the American hyperpower."[14]The Socialist Party campaigned in favor of the European constitution with the slogan "A strong Europe to face up to the USA."[15] In line with Gaullist thinking, Royal sees the European Union as a competing power to the U.S., not a complementary ally. With the European constitution's lengthy policy prescriptions and deep centralization of foreign policy, Royal sees it as a way for France to project its power counter to the aims ofthe United States.
Tied into this, Royal has also weighed in on the U.S.-U.K. Special Relationship. Through her spokesman and foreign affairs adviser, Gilles Savary, she launched an astonishing attack on the U.S.-U.K. alliance in November in an interview with The Daily Telegraph, demanding that Britain chooses between being "vassals of the United States" or a fully integrated member of a highly centralized European Union.[16] Savary's comments amount to a major affront to the sovereign foreign policymaking of a European ally and illustrate the deep-rooted anti-Americanism driving Royal's European policy.
The French Socialists are pushing an agenda in Europe that represents a strategic threat to the United States. The Royal vision for the European Union would make Brussels a rival to America, rather than a partner. In contrast to the European vision outlined by Margaret Thatcher at Bruges in 1988, Royal wants an E.U. based on deeply integrated foreign and defense policies. This represents a major threat to America's future coalition-building prospects and an immense challenge to constructive transatlantic foreign relations.
Conclusion
As a major power in Europe and a medium-sized global power, it is in France's interest to adopt a less combative and more conciliatory stance toward the United States. But as a committed Socialist and darling of the Left, Royal would steer a status quo course for French politics that would continue the disintegration of the Franco-American relationship and put even more distance between the Elysée Palace and the White House.
For France to be heard in Washington, the French government must adopt a new approach. This would not happen under Ségolène Royal. She has shown neither the desire nor the ability to craft a credible, conciliatory approach to rebuilding the French-American alliance and has undertaken to make Brussels, with France at the forefront, a rival power player to Washington.


From: "Heritage Foundation"

Friday, March 16, 2007

Non fumare come la Turco


Il Tar del Lazio ha stoppato il D.L. Turco sull'uso personale di droga. O meglio di marjuana. Secondo il decreto legge non è soggetto a detenzione chi è in possesso di una quantità di droga pari a 1g di principio attivo (tetraidrocannabinolo). Questo quantitativo corrisponde su per giù a 40 canne. Insomma una legalizzazione dello spaccio, dal momento che nessun pischello, nemmeno il più sballato, si fuma così tante canne. Una demenzialità legislativa giustamente bocciata. Si può infatti essere contrari o favorevoli (e noi lo siamo) alla liberalizzazione delle droghe leggere, ma propugnare mostri come il D.L. Turco fa accopponare la pelle. Perchè mi si deve spiegare che senso ha considerare "uso personale" 40 canne e "criminale" chi ne è in possesso di 41. Mi si deve spiegare perchè si considera legale questa abnorme quantità di droga e non si legalizza del tutto l'uso di marjuna. Ma è inutile interrogarsi più di tanto. Dal Governo Prodi e dalla coppia Turco - Ferrero cosa potevamo aspettarci? Nient'altro che porcate, Calderoli dixit...

Thursday, March 15, 2007

Letizia e sicurezza in piazza a Milano


La manifestazione milanese per chiedere al governo un intervento più consistente per difendere la città dalla violenza è stata definita “inopportuna” da Romano Prodi, che aveva invece parlato di altre manifestazioni, di orientamento estremistico, come del “sale della democrazia”. La metropoli lombarda si sente abbandonata, rivendica il grande contributo quantitativo e qualitativo che fornisce alla crescita del paese, ma conteggia anche quanto avaro sia lo stato nei suoi confronti. Letizia Moratti chiede più poliziotti, non trasferimenti di reddito o finanziamenti senza ritorno per opere faraoniche. Chiama i cittadini a sostenere questa sua civile richiesta perché ci crede, crede che sia giusta e crede che la mobilitazione serena ma ferma dei cittadini possa essere uno strumento per ottenere che il governo risponda. Le malcelate espressioni di invidia dei suoi colleghi, dal sindaco di Venezia a quello di Torino, dimostrano che ha ragione. La richiesta di sicurezza è la più diffusa, non solo nelle grandi città, dipingerla come una pulsione autoritaria o addirittura reazionaria, come fanno metodicamente gli esponenti della sinistra estrema, ma non solo, non è tanto un errore, è la prova di uno strabismo che impedisce loro di riconoscere il popolo in nome del quale dicono di battersi. Se la risposta del centrosinistra a questa domanda di sicurezza consiste nell’abolizione dei centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini (introdotti peraltro da Giorgio Napolitano) e nella legislazione permissiva sulle droghe, è evidente che essa va contro il sentimento popolare. Esprimere la protesta in modo ordinato, dietro il gonfalone della città e attorno alle sue autorità elettive, è il modo più civile e composto per opporsi a ciò che si ritiene sbagliato e pericoloso, senza concedere nulla allo spirito della pura agitazione. La difesa della sicurezza, la lotta contro la violenza criminale non può e non deve essere lasciata a frange estremiste che la strumentalizzano, Letizia Moratti l’ha capito, Romano Prodi no.

From "Il Foglio"

Monday, March 12, 2007

Forza Rudy!


Nuovissimo blog italiano per appoggiare la candidatura di Rudy Giuliani alla Casa Bianca...non mancare di visitararlo!!


Friday, March 02, 2007

La falsa via del berlusconismo di Elio Antonucci





I SAGGI DI RIVOLUZIONE LIBERALE


Lo scorso gennaio si è tenuto a Roma il convegno sul berlusconismo, organizzato dalla Fondazione Liberal. Si è discusso della figura del Cavaliere, del politico e dell’interprete migliore della società che cambia. Ma si è anche parlato di “berlusconismo”, termine, a dire il vero, già usato da diversi anni a questa parte per indicare un preciso approccio alla res publica. Come tutti gli “ismi” anche il berlusconismo dovrebbe esser preso sul serio e considerato senza pregiudizi e con un minimo di realismo. Sempre che si possa discorrere di un simile fenomeno o, come ritengo, non si stia proponendo una vistosa forzatura.

La politica italiana vive di luoghi comuni ed uno di questi è senza dubbio il Berlusconi “non politico” o addirittura inteso come “antitesi della politica”. Ma cos’è un politico? Letteralmente significa “colui che si occupa della pòlis”, cioè chi governa una città o, per esteso, una nazione. Secondo la sinistra e, a dire il vero, ampi settori del centrodestra, Berlusconi non è un politico perché non viene dalla politica politicante, perché è un nuovo arrivato rispetto ai signori che si occupano di tali cose da una vita, perché il suo eloquio non è tecnicamente perfetto come quello di un Fini o altezzoso come quello di un D’Alema o noioso come quello di un Bertinotti. Berlusconi non è un politico punto e basta. La prova provante sta nel fatto che coloro che predicano l’antipolitica del Cavaliere in realtà non ne sanno dare un’altra definizione. Una definizione che sia, cioè, più argomentata, profonda e, soprattutto, dimostrabile.
Politico significa essere portatore di idee, rappresentante di classi sociali, artefice del consenso, governante. Berlusconi rispetta tutti questi quattro parametri. Anzitutto la piattaforma ideologica. Il più grande merito del leader della Cdl è stato quello di raccogliere quasi in toto l’eredità del pentapartito e di integrarla a quella del vecchio Msi. Berlusconi oggi rappresenta la fusione tra la cultura liberale e modernista delle classi più avanzate del nord Italia e quella ancora conservatrice e tradizionalista del meridione. Il risultato di tale stupefacente sintesi politica è il consenso che gli deriva, quando perde le elezioni, dalla metà degli italiani e, quando vince, dalla stragrande maggioranza del popolo. Dati alla mano,infatti, il centrodestra dal 1994 ad oggi non è mai stato minoranza in questo Paese. Il carisma indiscusso e inimitabile di Berlusconi ha notevolmente contribuito a questo successo. Il Cavaliere ha presieduto l’esecutivo più lungo della storia repubblicana e, comunque la si pensi, ha governato. Bene o male, a seconda dei punti di vista. Ma Berlusconi oggi rappresenta l’unico politico italiano nel vero senso della parola. Un fenomeno difficilmente ripetibile e che apre inquietanti scenari sul futuro dell’Italia e del bipolarismo.

“Berlusconismo” infatti dovrebbe rappresentare un movimento politico, uno stile di governare, una filosofia di vita. Tuttavia il popolo di centrodestra non è berlusconizzato, che la sinistra ne dica. Sono abbastanza vicino agli ambienti di Forza Italia per sapere di cosa si sta parlando. E posso dire a voce alta e senza tentennamenti che sono il pregiudizio, la malafede ed una buona dose di invidia sociale miscelate ad un rancore profondo a spingere gli opinionisti e le masse progressiste a fare certe asserzioni. Il centrodestra è interclassista anzitutto, ma è soprattutto una miscela delle ideologie più importanti del nostro Paese: la cattolica, la liberale, la federalista, la nazionalista e la socialista. Ideologie, si badi bene, esistenti da almeno due secoli a questa parte e di certo non introdotte da Berlusconi. Il Cavaliere ha semplicemente amalgamato popoli in passato distanti tra loro (talvolta in aperta contrapposizione) ma uniti da due comuni denominatori: l’antistatalismo e l’anticomunismo. La somma ha dato l’attuale Casa delle Libertà. Come si può verosimilmente pensare che metà e più degli italiani sia berlusconizzata? Come la si può considerare così acefala?
Un altro dei luoghi comuni della politica italiana è quello di ritenere ignorante chi vota per Forza Italia. Se lor signori avessero studiato meglio il Paese, fatto indagini statistiche degne di tal nome si sarebbero accorti della fallacità di queste convinzioni.

La sinistra italiana vive una sorta di complesso berlusconiano. Anzi, paradossalmente si può affermare che sia la sinistra ad essere berlusconizzata. E’ un rapporto morboso quello che ha con il Cavaliere, così morboso da mandarla nel pallone ad ogni minima assenza dalla scena del signore di Arcore o per ogni suo malore. “Dio salvi Berlusconi” recitava l’editoriale di prima di Liberazione, all’indomani dell’episodio di Montecatini a testimonianza di come il leader del centrodestra sia indispensabile per la sopravvivenza politica della sinistra, in quanto unico fattore unificante. La coalizione progressista oggi soffre di una grave forma di miopia. Non capisce che l’Italia che produce, l’Italia che lavora, l’Italia più avanzata culturalmente, l’Italia che vuole il progresso, l’Italia orgogliosa dei propri valori e delle proprie tradizioni, l’Italia dei nostri padri e quella del futuro vota per Berlusconi. Vota Berlusconi non perché berlusconizzata ma perché Berlusconi è l’unico che ha la capacità politica per dar loro voce ed indicare una via. Questo obiettivamente non si traduce in una reale capacità di soddisfare tutte le su citate aspettative ma per questa Italia il Cavaliere rappresenta il male minore, convinta, e non a torto, che “Berlusconi non farà i miracoli che promette, ma di certo non ci danneggia”. E’ questa la chiave di volta. Fino a quando la sinistra non si sdoganerà dal complesso del berlusconismo non riuscirà a fare quel salto di qualità necessario per recuperare consensi in quell’Italia che è la parte migliore del Paese.

Il 2 dicembre 2006 a Piazza San Giovanni questa Italia, rinnegata dalla sinistra e celata dai sondaggi di parte, si è materializzata. La manifestazione più grande dal dopoguerra, 2200000 di operai, impiegati, artigiani, commercianti, imprenditori, studenti, anziani e famiglie intere. Il popolo anticipa sempre la politica ed anche questa volta è successo. Gli italiani hanno invitato i leader della Cdl a marciare uniti, a credere nel progetto del Partito delle Libertà e vincere le elezioni. Quel popolo per quanto interclassista e ideologicamente vario oggi è un mare indistinto, agitato da proposte, progresso ed innovazione. Berlusconi ha raccolto l’eredità del passato e ne ha ridato dignità politica dopo l’incubo giustizialista di Tangentopoli. Oggi non esiste alcun berlusconismo, ma un popolo di centrodestra avanti anni luce da Fini, Casini e compagnia cantante.

Chi parla oggi di berlusconismo danneggia il popolo delle libertà. E’ una falsa via da non perseguire per non disperdere il lavoro fatto in quasi 15 anni di storia moderna. La gente chiede il partito unico ed è questa la differenza con la sinistra. Là il Partito Democratico lo calano dall’alto senza alcuna piattaforma ideologica e Mussi ha ragione da vendere quando parla di “inconsistenza” della proposta. Il centrodestra oggi grazie a Berlusconi è un unicum animato dalle stesse aspettative. Compito della classe dirigente del futuro sarà quello di proseguire in quest’opera unificatrice nel solco della tradizione popolare europea. Agli elettori della Cdl non interessano né il dibattito sulla leadership né le spinte neocentriste limitate al Parlamento ed inesistenti nel Paese. Oggi quegli elettori hanno bisogno di essere rappresentati. Semplicemente. Servono programmi concreti e chiari. Il federalismo fiscale, le liberalizzazioni nei trasporti e nella pubblica amministrazione, il potenziamento della legge Biagi, l’apertura alla concorrenza anche straniera, gli investimenti nella ricerca, la politica estera filo occidentale, la lotta senza riserve al terrorismo, le infrastrutture per ammodernare il Paese. La sinistra e i lacchè del Cavaliere lo chiamano berlusconismo. Io la considero una seria politica liberale per l’Italia.











L'Istat certifica l'eredità del Governo Berlusconi


Il deficit peggiora ed il governo esulta. Apparentemente un paradosso. Ma non è così. In termini nominali, il deficit del 2006 - ufficializzato dall’Istat - è stato pari al 4,4% del pil, a fronte di un rapporto del 4,1% nel 2005. In realtà, a condizionare pesantemente i conti pubblici dello scorso anno è stata la scelta di Romano Prodi e di Tommaso Padoa-Schioppa di scaricare su un unico esercizio (quello passato) due punti di pil di maggiori spese (quasi 30 miliardi di euro), che si sarebbero potute diluire su più anni. E si tratta di quasi 16 miliardi di onere della sentenza Ue sull’Iva delle auto; di 13 miliardi dei mutui contratti da Infrastrutture Spa per finanziare gli investimenti Fs; e di 734 miliardi di cartolarizzazione dei crediti Inps in agricoltura.Senza queste spese una tantum - volute per ragioni politiche e non tecniche dal governo - il deficit 2006 si sarebbe fermato al 2,4%, dal 4,1% del 2005. Vale a dire, ampiamente entro il tetto del 3% europeo. «Si è risanato molto ed in breve tempo», commenta soddisfatto Guglielmo Epifani. Ma la correzione correzione del deficit operata da questo governo è stata dello 0,1%, arrivato con il decreto del luglio scorso. Il risultato positivo del miglioramento dei conti viene dalla applicazione della legge finanziaria in vigore dal 1° gennaio 2006, firmata da Silvio Berlusconi e da Giulio Tremonti. E dalla crescita economica che ha favorito il gettito. Sempre l’Istat ha comunicato che la crescita del pil nel 2006 è stata pari all’1,9%. «C’è stata un’inversione di tendenza», osserva la presidenza del Consiglio. «I conti pubblici hanno beneficiato di una ripresa congiunturale superiore al previsto. Ma questo non autorizza ad abbandonare la disciplina di bilancio necessaria per il graduale azzeramento del deficit e la riduzione del debito pubblico», aggiunge il ministero dell’Economia.Poi Prodi rileva che «in assenza di oneri straordinari il rapporto deficit/pil sarebbe sceso abbondantemente sotto il 3%». Osservazione che manca nella nota nel ministero dell’Economia. In compenso, il ministro rivela che i conti pubblici italiani registrano «un afflusso di entrate che fa intravvedere, oltre alla componente congiunturale, un miglioramento strutturale della disciplina di bilancio». Miglioramento che si ritrova anche nel dato di fabbisogno di febbraio. È stato di 6,5 miliardi. Nel primi due mesi dell’anno, il deficit di cassa è stato di 7,8 miliardi, contro i 9,5 del 2006. A determinare il buon andamento, ancora una volta l’andamento delle entrate. Al punto che Padoa-Schioppa riconosce che il maggior gettito entrato nelle casse dello Stato è «strutturale». Ed è frutto - ma questo non lo dice - della politica fiscale condotta nella precedente legislatura. Risultato raggiunto pur in presenza di aliquote fiscali ridotte. Infatti, nonostante le aliquote Irpef, Ici, Ires fossero nel 2006 più basse rispetto a quelle aumentate dalla legge finanziaria, la pressione fiscale complessiva è salita al 42,3%.Indignato con il presidente del Consiglio, Mario Baldassarri. Il senatore di An, ex viceministro dell’Economia, ritiene che la politica economica del governo sia fondata sulla menzogna. «La crescita del pil dimostra come l’economia era già in ripresa ed in crescita nel 2006 e non allo sfascio come ci hanno raccontato per mesi per giustificare una Finanziaria di lacrime, sangue e tasse». Ma la positività del dato Istat riguarda anche l’avanzo primario: il vero indicatore che misure la riduzione del debito. Senza le maggiori spese che nominalmente appesantiscono il deficit 2006, anche l’avanzo primario sarebbe stato del 2,2%, contro lo 0,2%, segnalato ufficialmente dall’Istat. «Adesso il governo mantenga l’impegno di portare il deficit di quest’anno sotto il 3%», osserva il portavoce di Almunia. Ed anche alla luce dei risultati di ieri è probabile che il 2,8% previsto possa scendere al 2,4-2,5%. «I segnali sono positivi. Ora l’Italia dovrebbe sfruttare questa fase positiva per andare avanti con le riforme», commenta il Fondo monetario.
From "Il Giornale", March 2, 2007

Visti dal mondo


ROME (Reuters) - Romano Prodi's victory in a confidence vote has given his center-left government a lease of life but Italy appeared unconvinced on Thursday he can remain prime minister long enough to deliver promised reforms.
Prodi, who quit after a leftist revolt on foreign policy, scared wayward allies into backing him in the Senate on Wednesday with the prospect of conservative Silvio Berlusconi returning to power after just nine months out of government.
Despite the allies' promise of an internal truce, coalition troubles were spotted on the horizon even before the formalities end with an easy confidence vote in the lower house on Friday.
``With yesterday's vote the government crisis is over,'' said leftist union leader Guglielmo Epifani, readying for a fight over pensions. ``We await talks but we have no illusions that, if it was no walk in the park anyway, it now looks very uphill.''
The nine-party coalition has fought almost non-stop since coming to power in May with the slimmest election margin in post-war history, on anything from troops in Afghanistan and a U.S. military base at Vicenza to spending cuts and gay rights.
Some leftists are threatening revolt when parliament this month debates funding to keep NATO peacekeepers in Afghanistan. Prodi says Italy must respect its overseas commitments.
``NO REAL MAJORITY''
Another battle looms over a government bill granting rights to gay and unwed couples. Some coalition Catholics will object, fearing it could clear the way for gay marriages.
Leftists will come under union pressure to oppose reforms of a pension system which the European Union says a country with such an aging population cannot afford.
``Prodi will always have trouble because the votes are almost equal,'' said 67-year-old Rome pensioner Piero Noce. ''He'll have difficulty with pensions, health, Vicenza and peace missions.''
Gigi Roveda, a 58-year-old from Milan, said Prodi relied too much in parliament on a handful of unelected life senators who boosted his tiny elected majority in the confidence vote.
``They don't have a real majority, they rely on life senators who don't represent the political will of the people,'' he said.
Prodi promised to make it his ``absolute priority'' to reform an electoral system stacked against strong majorities which is blamed for the political instability that has plagued Italy for decades.
New evidence of an improved underlying budget deficit augurs well for Prodi's promise to bring the shortfall within EU guidelines this year. But he has done that partly with taxes that angered small business.
``With Berlusconi we couldn't make it to the end of the month, but with Prodi's new taxes we can't even make it through a fortnight,'' said Roveda, at his family's jewelry shop.


From "New York Times", March 1st, 2007

Thursday, March 01, 2007

Il più bel commento


Questo commento sull'abrogazione della legge Pecorella è stato inviato alla redazione da una persona speciale, mio padre. Nelle sue parole lo spirito che ci muove, uniti...la libertà. Grazie di tutto.


Ho letto il tuo articolo e lo condivido in pieno. Devo dire qualcosa a quel signore "anonimus1950" per ricordargli che in tutti gli stati civili d'Europa non è ammesso il gravame da parte del P.M. contro una sentenza di proscioglimento ex art.530 C.P..Il nostro Paese che si caratterizza per l'estremismo giudiziario gratuito di una sinistra ostaggio e debitrice della Magistratura Rossa ha continuato a non smentirsi.A quel signore che parla di giudici compiacenti per una assoluzione voglio ricordare i tanti P.M.non compiacenti e che hanno costretto politici ed uomini d'azienda a suicidarsi (vedi l'on.MORONI, vedi GABRIELE CAGLIARI, vedi RAOUL GARDINI). A quel signore ricordo che vi è un ministro della Repubblica,l'on.Di Pietro,indagato per patrocinio infedele dalla Procura della Repubblica di Campobasso;nessuno ne parla!E' questa la Giustizia dei rossi.Occorre resistere e Tu fai bene a farlo con coraggio e disinteresse

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