Rivoluzione Liberale

Editoriali,articoli e rassegna stampa di cultura liberale.

Saturday, December 30, 2006

Forza Italia è contro la pena di morte. Per fortuna


"L'impiccagione di Saddam Hussein rappresenta un passo indietro nel difficile percorso dell'Iraq verso una democrazia compiuta", dice Silvio Berlusconi. Il leader della Cdl sottolinea che la condanna a morte è stata "decisa da un tribunale legittimo e dunque non espressione di giustizia sommaria", ma allo stesso tempo evidenzia "il rischio concreto che questo atto estremo alimenti un'altra spirale di vendette, di ritorsioni e di sangue tra sciiti e sunniti in un Paese ancora sull'orlo di una tragica guerra civile". L'ex premier, difende la decisione di inviare le truppe italiane in Iraq, sostenendo che "la civiltà" in nome della quale è stato decisa la "missione di pace contempla il superamento della pena di morte". Secondo Berlusconi "la sospensione della condanna avrebbe inoltre consentito lo svolgimento degli altri processi aperti contro il rais per i suoi efferati crimini contro l'umanità così da fare piena luce su trent'anni di genocidi e di orrori". Per questo, il leader di Fi giudica l'esecuzione un "errore politico e storico".


Parla di grave errore etico e politico, il vicepresidente della Commissione Ue, Franco Frattini, per il quale "non possiamo tacere di fronte a una decisione che contrasta con i valori fondanti dell'Europa".


Il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, parla di "una pagina orribile da tutti i punti di vista" e spiega che "l'esecuzione è stata un grave errore" anche sul piano politico, "destinato a peggiorare la già tragica situazione dell'Iraq".

From "La Repubblica", December 30, 2006

Friday, December 29, 2006

Sconcerto


Ieri il Presidente del Consiglio ha fatto il bilancio dei suoi primi mesi di Governo. A prescindere da come la si pensi (la nostra opinione, ovviamente, è pessima), ciò che desta maggiore sconcerto è l'atteggiamento dei principali quoitidiani italiani. La grande stampa, infatti, si mostra ancora una volta muta ed accondiscendente verso un esecutivo che non ha il reale consenso nel Paese. Un esempio su tutti? Basti leggere gli editoriali odierni de La Repubblica a firma di Massimo Giannini (un buonismo mieloso) o quello de La Stampa ad opera di Luigi La Spina (che sembra aver visto un altro film), per non parlare della glissata con classe del Corriere della Sera. Un tempo ci rimanevo male di fronte a tanta malafede e presunzione (quella cioè di autodefinirsi giornali prestigiosi e super partes). Oggi invece, conscio dell'inattendibilità di codeste fonti, mi faccio una grassa risata. Tuttavia immagino lo sconcerto del cittadino qualunque. Posso dirgli semplicemnte che non è solo, anzi che rappresenta il comune sentire di una nazione. Un'ultima curiosità.Andate a questo link: http://canali.libero.it/affaritaliani/politica/prodiforum2812.html

e vedete quante persone sono contente del discorso di Prodi. Alla malora.

Thursday, December 28, 2006

Bizzarrie sinistre


Il Corriere più ridicolo


Chiuso con rito radicale il caso Welby, puntuale il Corriere della Sera sigilla il tutto con l’immancabile sondaggio di Mannheimer, dal quale si apprende che - quando si dice la combinazione - la maggioranza degli italiani sarebbe favorevole all’eutanasia. Non è dato sapere se l’indagine sia stata condotta a botta calda. Il dato singolare è che «l’ostilità all’eutanasia cresce al crescere dell’età degli intervistati», con punte quasi parossistiche tra gli intervistati più anziani. L’indagine però non spiega perché il vecchietto, al pensiero che potrebbe toccare a lui, si sia sentito crescere dentro «l’ostilità».

From "Il Giornale", December 28, 2006

Wednesday, December 27, 2006

Il progetto di Berlusconi: un'università liberale di Fabrizio De Feo


Roma - Il progetto sarebbe in cantiere da circa un anno. La sede sarebbe già stata individuata: una prestigiosa villa in Lombardia. Così come sarebbe già stato scelto il responsabile del progetto e il possibile «rettore»: Angelo Maria Petroni, direttore della Scuola superiore della pubblica amministrazione e consigliere di amministrazione della Rai.L’ultima idea di Silvio Berlusconi si chiama «università del pensiero liberale». Un ateneo ad hoc con cui scardinare il «monopolio della sinistra» in campo culturale e accademico e formare la «futura classe dirigente moderata», aiutando il centrodestra a penetrare nella società, facendo rete dei propri strumenti e arcipelago delle proprie isole sparse. Un sogno che il presidente di Forza Italia ha sempre avuto nella testa e ora potrebbe iniziare a prendere forma, uscendo dalla stadio embrionale.Il leader di Forza Italia, rientrato da alcuni giorni in Italia dopo l’intervento a Cleveland, sta trascorrendo questi giorni di festività a Milano, accanto ai suoi familiari. L’ex premier non ha ancora ripreso a pieno ritmo l’attività lavorativa. Ma Don Gelmini - amico di vecchia data del Cavaliere - dopo averlo sentito per telefono ha detto che «sta bene ed è molto, molto combattivo». In effetti, anche in questi giorni di riposo ai tanti che lo hanno chiamato per gli auguri Berlusconi è sembrato molto determinato, soprattutto su quella che considera la sfida dei prossimi mesi: il partito unico dei moderati. Un obiettivo a cui si affianca un altro progetto: la fondazione di una «università del pensiero liberale». L’idea era stata anticipata alcune settimane fa nel corso di una riunione con i coordinatori regionali. Ma ora sarebbe partito l’input definitivo per passare alla fase operativa del progetto.«Non possiamo lasciare la cultura nelle mani della sinistra» è stato il ragionamento che Berlusconi ha fatto in queste ore con alcuni interlocutori.

Il partito dei moderati sarà il mio lascito - ha aggiunto - e l’università costituirà la base della futura classe dirigente del centrodestra». Il successo della manifestazione organizzata dal centrodestra a dicembre ha rafforzato nel Cavaliere la convinzione che si debba «rilanciare la cultura di centrodestra, soprattutto ora che il popolo di San Giovanni ha dimostrato che Forza Italia è un partito di massa». Come dire che il popolo c’è, ma bisogna fornirgli una guida e una comunità intellettuale di riferimento, sottraendo alla sinistra «il monopolio della cultura».Il progetto, assicura chi ci sta lavorando, sarebbe in una fase piuttosto avanzata e sarebbero già state individuate alcuni possibili sedi in Lombardia. Secondo qualcuno si starebbero valutando alcune strutture vicine alle due case di Berlusconi di Arcore e Macherio. Nelle intenzioni del leader azzurro, l’università dovrebbe essere strutturata sul modello statunitense. Un vero e proprio campus, dunque, con posti letto per studenti e professori, attrezzature sportive, biblioteche. Un progetto da realizzare in tempi rapidi se è vero che il Cavaliere vorrebbe inaugurare l’ateneo entro un anno, massimo un anno e mezzo.L’università prenderebbe spunto dall’esperienza di istituti già esistenti come la Luiss o la Bocconi. Un ateneo privato, dunque, ma con un sistema di borse di studio per premiare gli studenti meritevoli che non possono permettersi la retta. Le facoltà sarebbero prevalentemente quattro: economia e commercio, giurisprudenza, scienze politiche e della comunicazione. Berlusconi è intenzionato a dare un’impronta internazionale al nuovo istituto con accordi di collaborazione con università di altri Paesi e con lezioni di personaggi di livello internazionale, come gli ex statisti Bill Clinton e Mikhail Gorbaciov o magnati come Bill Gates. Nessuna indiscrezione sul nome dell’ateneo. L’unica certezza è che il leader azzurro ne sarebbe il fondatore perché come conferma il senatore Guido Possa amico di infanzia dell’ex premier, «Berlusconi vuole che il suo passaggio nella politica lasci un’eredità concreta e un’orma profonda, anche nella formazione e nella cultura».
From "Il Giornale", December,27,2006

Tuesday, December 26, 2006

Anche Fassino lo ammette: il Governo è in affanno


L'intervista che riportiamo è piuttosto esplicativa del malessere che serpeggia tra le fila dell'Unione. Fassino è da un paio di settimane che ha ripreso in mano la situazione, passando da una trasmissione all'altra. L'ultima apparizione risale alla Vigilia di Natale davanti alle telecamere di Sky Tg 24. Ora parla al Corriere. Segno che in casa Ds ci si è resi conto del malcontento generalizzato degli italiani verso il Governo. I primi a pagarne sono ovviamente gli ulivisti. Secondo gli ultimi sondaggi, infatti, Uniti nell'Ulivo non supererebbe il 26%, al fronte di un incremento netto di Forza Italia che si attesterebbe abbondantemente oltre il 30%. Fassino sa bene che la sinistra non è più maggioranza in questo Paese. E a Massimo Franco lo dice chiaramente.


Qualche scricchiolìo lo avverte anche lui. E il primo è sul fronte del governo. «Credo che l'affanno del governo renda più difficile la costruzione del Partito democratico, e non viceversa», ammette Piero Fassino, segretario dei Ds. Il secondo attraversa l'Unione, ed è altrettanto scivoloso. «Costruire il Pd è più faticoso quando qualcuno esaspera ogni giorno i temi etici», sottolinea. «È stato il terreno sul quale il Pd ha marcato le maggiori difficoltà. Se Arturo Parisi ci avesse dato una mano... Invece, non gli ho mai sentito dire una parola». Eppure, Fassino sembra convinto che l'operazione possa riuscire. Per lui, il Pd «deve» nascere: «Altrimenti rischiamo di precipitare in una crisi di sistema».Non si sente un po' più solo di qualche settimana fa? «No, perché dovunque vado trovo partecipazione, interesse e disponibilità. Continuo a percepire una spinta a costruire il Pd, e a farlo nel modo più efficace».Nonostante quello che dice Parisi? «Guardi, il meglio è spesso nemico del bene. E le fughe in avanti rischiano di farci smarrire la strada. La nascita di un partito non può essere un atto solitario di volontà. Io non faccio il predicatore: sono segretario di una forza con oltre 6 milioni di voti. E voglio portarli tutti nel Pd; e con loro altri elettori che non sono nei partiti».Se dovesse scegliere? Sarebbe più importante l'unità interna dei Ds o il Pd? «Lavoro per portare tutti i diessini nel Pd: separarsi sarebbe insensato. E ho l'impressione che questo dibattito sia già datato: la quasi totalità degli iscritti diessini sono contro la scissione. Dunque, non sono frenato da questo. Veniamo da cent'anni di storia della sinistra, durante i quali si pensava che i problemi si risolvessero separandoci. Invece la divisione ci ha portato solo delusioni e sconfitte».Eppure qualche alleato ritiene che voi freniate perché temete la spaccatura. «Mi sembra un errore ritenere che esistano pochi illuminati che vogliono fare il nuovo partito, mentre noi diessini saremmo i frenatori. Ricordo che siamo stati noi a puntare su questo soggetto con Prodi, nel 2003; ad avere voluto la lista dell'Ulivo alle europee nel 2004; e ad avere insistito per la lista "Uniti per l'Ulivo", nonostante altri non la volessero alle regionali del 2005 e alle politiche. E siamo quelli che hanno creduto di più nelle primarie, garantendone il successo».Insomma, è sempre convinto che all'Unione serva il Pd. «Serve al Paese. C'è una disaffezione crescente verso la politica. E c'è una nostalgia palpabile del sistema proporzionale. Il Pd è necessario per evitare questa deriva e una crisi del sistema. Ci sono momenti in cui una nazione è chiamata a interrogarsi su se stessa. Penso alla Spagna postfranchista, alla Germania dopo la caduta del Muro di Berlino, e alla Francia tra Quarta e Quinta Repubblica. Ecco, l'Italia è ad un passaggio non meno decisivo. Deve sapere dove si colloca in Europa e nel mondo; ricostruire la competitività economica, la coesione sociale e la stessa identità nazionale: pochi anni fa si parlava di secessione. Il Pd serve a guidare questa fase; e a vincere una scommessa che la destra ha tentato, e perso».Il suo gradualismo non riscuote grandi consensi. L'idea della doppia affiliazione, al Pd e ai partiti fondatori, sul modello del sindacato metalmeccanico, è stata bocciata. «Non sono così sciocco da proporre il modello della Flm per il Pd. Era un esempio per indicare la strada, per fare incontrare partiti e non partiti, per uscire da una contrapposizione astratta. E infatti quando l'ho detto in un'assemblea di 600 persone, a Milano, ci sono stati applausi, non mugugni. Mai essere velleitari, in politica. Bisogna individuare obiettivi alti, ma soprattutto la strada giusta per raggiungerli».Ma Parisi è visto come il custode dell'ortodossia prodiana. Lei ha appena incontrato Romano Prodi. Condivide la sua analisi? «Con Prodi abbiamo confermato l'impegno a costruire il Pd, seguendo lo schema non scelto da me, ma da tutti noi, insieme».Non teme che alla fine possa nascere fuori e quasi contro i partiti, attraverso una sorta di primarie? «Non credo alle scorciatoie plebiscitarie per costruire il Pd. Contrapporre società e partiti è un falso dilemma. Chiederò che nello statuto siano previste in modo vincolante le primarie sulle candidature; che si facciano dei referendum per consultare gli iscritti sui grandi temi; e che i dirigenti siano eletti a voto segreto e con un termine al mandato. Ma queste cose le fa un partito, non un movimento d'opinione: un partito con radici robuste e organizzazione capillare; e che fa attività elettorale tutto l'anno».Che il progetto sia in affanno, però, è un fatto. Come lo è l'affanno del governo. Influisce di più in negativo il primo o il secondo? «L'affanno del governo rende più difficile la costruzione del Pd, e non viceversa. Non lo dico per scaricare le colpe, ma la fatica della quotidianità pesa sui progetti di lungo periodo. Credo anche che la Finanziaria sia giusta negli obiettivi, nell'impostazione e nelle scelte. Deve cancellare i cinque anni ereditati dal governo Berlusconi, rimettendo in moto la crescita, riducendo deficit e debito, e dando certezze alle famiglie».La Confindustria è meno ottimista di lei. «Invece credo che il tasso di crescita si avvicinerà a una soglia fra l'1,5 e il 2 per cento, e il deficit sarà sotto il 3. Poi vedremo».È stato sorpreso da quello che il ministro Padoa- Schioppa ha chiamato l'attacco del «partito» confindustriale? «Non vedo un partito della Confindustria. Mi pare invece che fra gli imprenditori ci sia una sottovalutazione degli effetti benefici della Finanziaria sugli investimenti, sia per le imprese sia per le infrastrutture. Ma è vero che c'è stato un limite del governo e dell'Unione. E il limite di comunicazione è stato figlio di quello vero: non aver saputo costruire una "condivisione" delle scelte. C'è un filo che lega il disagio degli operai di Mirafiori, gli artigiani di Venezia e i ricercatori universitari: non si sono sentiti riconosciuti».Glielo ha confermato il suo giro nel Nord? «Mi ha confermato che anche lì dove il cuore batte a destra, è importante riconoscere gli interlocutori. Per un mondo delle imprese misconosciuto dal governo, 3 punti di cuneo fiscale sono nulla: e non ne basterebbero nemmeno 100. Ma se li riconosci, ne bastano anche meno».A Palazzo Chigi, a molti fischieranno le orecchie. «Non fischio falli a nessuno. I Ds sono il primo partito del governo. Si sentono corresponsabili, e sono altrettanto leali. Ma andiamo verso una fase non meno complicata della Finanziaria. Prodi e Padoa- Schioppa annunciano riforme impegnative. O ci poniamo l'obiettivo di una condivisione delle scelte, o anche le cose più giuste non saranno percepite come tali».Tutto si tiene, a sentire lei. «Ne sono convinto. Il Pd servirà a dare forza e guida alla coalizione; e la credibilità del governo aiuterà il Pd».Eppure rimangono contrasti profondi con alcuni alleati. «Certo, costruire il Pd è un'impresa più difficile quando qualcuno ogni giorno esaspera i temi etici».Allude ad una parte della Margherita? «Si sa di chi parlo. E noi diessini cerchiamo soluzioni condivise, non lacerazioni. Se Parisi desse una mano su questo... Invece non l'ho mai sentito dire una parola».Esiste anche una politica dei silenzi. «In certi casi è dannosa. Se c'è un terreno su cui il Pd ha marcato le maggiori difficoltà, è quello dei temi etici. Ed è responsabilità di quanti credono nel Pd cercare un terreno di incontro».Non può aver pesato anche il fatto che parte della sinistra non ha mai digerito la sconfitta referendaria del 2005? «Quella sconfitta in realtà era maturata prima: nell'impossibilità, e molto per responsabilità della destra, di trovare in Parlamento un compromesso ragionevole. Il referendum sulla fecondazione assistita l'ho sostenuto e mi sono speso più di altri. Ma questa vicenda ci dice che su temi delicati sul piano etico, laicità non è piantare bandiere ideologiche, ma far prevalere le capacità di ascolto delle ragioni altrui e trovare soluzioni condivise. Per questo, ad esempio, mi batterò per la legge sulle coppie di fatto. Ma cercherò un consenso più largo possibile, nell'interesse del Paese. Forzare è sempre sbagliato sia che lo faccia la Binetti, sia qualche esponente della sinistra».Ritiene ci sia un'ingerenza della Chiesa? «Non ho mai capito la denuncia di un'ingerenza: è priva di senso per chi ha una cultura liberale. Non chiedo mai ad un altro di tacere, né cerco di inibire un pensiero. Non lo chiedo, né voglio mi si chieda. Ma so che il punto di vista dello Stato e della fede sono diversi, e che devo tenere conto dell'aspetto religioso: soprattutto in un Paese come il nostro a grande maggioranza cattolica. È così che si possono evitare le lacerazioni».La accuseranno di minare la laicità dello Stato. «Al contrario, la sto esaltando: per me, la laicità è la capacità di far convivere una pluralità di opzioni, di perseguire soluzioni condivise che riconoscano la libertà dei cittadini. Senza forzature che il più delle volte sono strumentali e possono rivelarsi pericolosi boomerang».

Saturday, December 23, 2006

L'Editoriale di Elio Antonucci


A volte non riesco proprio a celare il mio disagio nei confronti di questo modo di fare politica. La disperata ricerca del consenso prima delle idee, gli accordi elettorali più imbarazzanti sopra i programmi ragionati e ragionevoli, le promesse campate in aria davanti ad obiettivi ponderati, il buon senso sempre e comunque umiliato. La fase di transizione che l’Italia sta vivendo rischia di bloccare il rinnovamento profondo, economico e sociale, che servirebbe al Paese per affrontare le sfide dell’immediato futuro. Di fronte al mondo che cambia, ai nuovi mercati come Cina ed India, alla minaccia terroristica, alle problematiche connesse alla globalizzazione ed ad una società che si trasforma, non scorgo iniziative di qualche rilievo, non odo voci fuori dal coro. Noi italiani abbiamo scelto la via dell’immobilismo, del vivi e lascia vivere, del non vedere per non sapere. Ma non sarà chiudendo gli occhi che sfuggiremo alle dinamiche mondiali ed alle problematiche, irrisolte, dell’oggi. “Rivoluzione Liberale” nasce con l’intento di promuovere una linea diversa all’interno del centrodestra, volta al rafforzamento della componente più laica e moderna della coalizione. Non abbiamo tessere di partito, ma ci collochiamo senza tentennamenti all’opposizione di questa maggioranza retriva ed arrogante che, con l’ultima Finanziaria da poco approvata, ha mostrato di non aver capito nulla delle esigenze e del substrato produttivo del Paese. La nostra è una via nuova ed accidentata, senza dubbio poco seguita dalla stessa Cdl (o come si chiama ora), nel solco della migliore tradizione liberale europea. “Rivoluzione Liberale” proporrà ad ogni aggiornamento editoriali ed una fitta rassegna stampa di articoli di cui condividiamo le idee. In definitiva, quindi, una piccola, modesta, piattaforma culturale che rilanci dibattiti e riflessioni da un’ottica diversa e moderna. Mi rendo conto dell’eccessiva presunzione, ma se anche pochi lettori cominciassero a condividere la nostra iniziativa mi riterrei soddisfatto. La prima pietra è stata posta. Spero che tante altre se ne possano aggiungere. Per un futuro di libertà.

(Questo articolo è stato chiuso alle 09:56)

Ma la morte di Stato non c'entra di Massimo Teodori


Sulla tragica vicenda Welby si è forse discusso anche troppo. Non tornerò quindi sui politici eccitati dalle manette, come l'udiccino Luca Volontè, che hanno dato voce al grido di «assassini», un grido definito «idiota» da un piccolo quotidiano d'opinione. Né mi soffermerò sulle singolari opinioni della senatrice margheritina Paola Binetti che forse ritiene di far parte del tribunale del popolo invece che del Parlamento, quando stabilisce ciò che è o non è reato, per cui invoca le dimissioni del ministro Bonino. Argomenti di questo genere non sono seri. Lo sono invece le questioni poste dal direttore Belpietro circa il «Trapasso statalizzato».L'interrogativo è il seguente: la vicenda Welby sospinge verso uno Stato onnipresente, onnipotente ed onniregolamentante e propone una tale Weltanschauung anche sulle questioni di vita e morte? Se così fosse, l'itinerario personale di Piergiorgio sarebbe stato ancora più pietoso, e il suo risvolto pubblico guidato dalla accorta regia radicale avrebbe portato anche per me ad un esito decisamente funesto. Non occorre ripetere che per uno spirito liberale è l'uomo e non lo Stato, la Chiesa, il partito o l'ideologia ad essere al centro del giudizio sul bene e il male. A me tuttavia pare che se c'è stata una spinta verso la statalizzazione del trapasso del malato, essa è stata esercitata contro e non su iniziativa di Welby. Ho già ripetutamente polemizzato sul macabro balletto che si è avvitato intorno al malato. Che cosa aveva a che fare con il caso reale il pronunciamento generico dell'ordine dei medici? Che senso aveva il parere richiesto dal ministro Turco al Consiglio superiore della Sanità se si trattasse di «accanimento terapeutico» o no, considerato che l'articolo 32 della Costituzione è relativo a tutti i trattamenti? Perché vi doveva essere una decisione di un tribunale quando il dettato costituzionale è esplicito sulla preminenza della volontà della persona malata? Perché dovrebbe essere necessaria una legge o un regolamento per disciplinare i criteri di intervento del medico il quale risponde personalmente in scienza e coscienza solo alle regole deontologiche a cui è vincolato?
Ed il comitato di bioetica cosa altro avrebbe potuto dire in difformità dagli articoli 2, 13, e 32 della Costituzione?È vero, la confusione ha regnato sovrana. Perché, diversamente da casi con pazienti come Terry Schiavo non in possesso delle loro facoltà, con Welby si trattava di una persona integralmente cosciente che ripetutamente aveva manifestato la chiarissima volontà di accelerare il trapasso sospendendo i trattamenti artificiali in altra epoca prescelti e chiedendo che la medicina facesse ciò che normalmente fa per alleviare le sofferenze.Ecco perché sostengo che Welby non desiderava affatto una morte garantita dallo Stato ma, al contrario, ha lottato fino in fondo per far prevalere la propria volontà su quella dei medici, degli esperti, dei giuristi (spesso in versione di azzeccacarbugli) e degli stessi politici che, come accade spesso, non hanno compreso che le ragioni e i tempi dei momenti difficili della persona umana non hanno nulla a che fare con le vischiosità proprie degli interessi partitici e istituzionali. Vi è poi un secondo interrogativo. L'azione radicale, resa efficace dall'innesto della disobbedienza civile, è volta a forzare l'introduzione di una legislazione, cioè di una regolamentazione dello Stato, anche su questioni così drammaticamente personali? Certo, la risposta può essere affermativa ma con due importanti distinguo. Il primo riguarda il fatto che non sono stati i radicali a scegliere Welby forzandolo all'azione che è stata compiuta, ma è stato Welby a volere fare con grande determinazione delle proprie scelte esistenziali un caso pubblico che potesse in qualche modo servire anche ad altri.Quanto poi alla futura legislazione, sarà l'intero Parlamento che dovrà prendere le opportune decisioni mediando fra i diversi e talora opposti valori delle varie correnti in esso presenti. Non sono certo io a parlare in nome di qualcuno, rappresentando solo la mia personalissima opinione. Tuttavia posso affermare che è nella tradizione liberale e libertaria volere la minima intrusione dello Stato negli affari personali che devono restare ben guidati dalla coscienza individuale fino al punto in cui non nuocciono a terzi.
From "Il Giornale", December 23, 2006

Adesso è più profondo il fossato tra laici e Chiesa di Paolo Franchi


Aveva torto, dunque, don Giovanni Nonne, il viceparroco della chiesa di Don Bosco, dove la mamma, cattolicissima, di Piergiorgio Welby avrebbe voluto si svolgessero, domani, le esequie. A Welby il funerale religioso non viene negato perché la sua morte rappresenta «un caso troppo clamoroso», come pensava lui, ma perché ha «ripetutamente e pubblicamente» affermato la volontà di porre termine alla sua vita, come ha reso noto il Vicariato di Roma. Bontà sua, il Vicario partecipa al dolore dei congiunti, e non gli nega la preghiera della Chiesa per l’eterna salvezza, con ciò testimoniando, ci pare, che l’Onnipotente, se c’è, potrebbe essere più misericordioso delle note 2276-2283 e 2324-2325 del Catechismo. Ma tiene a chiarire come sia proprio per via della sua lucida determinazione che a Welby (anzi: al dott. Welby, come burocraticamente recita il comunicato stampa del Vicariato) sono inibite quelle esequie religiose che ormai vengono a concesse ai suicidi dei quali invece è lecito presupporre «la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso».Può darsi, anzi, è pressoché certo che, nei termini di un diritto canonico del quale non possiamo davvero spacciarci per esperti, le ragioni del Vicario siano assolutamente inoppugnabili. Da laici, non ci impicciamo, limitandoci a chiarire che quello di Welby non è un suicidio assistito. Ma è assai probabile pure che una decisione simile sia destinata a suscitare dolore e interrogativi pesanti anche tra i cattolici, se persino Calderoli chiede di cambiarla. Ed è sicuro che contribuirà non poco a scavare un fossato ancora più profondo tra i laici (non i mangiapreti, non i “laicisti” esasperati: semplicemente i laici, credenti o non credenti che siano) e una Chiesa di Roma evidentemente impegnata, per combattere la «marginalizzazione» cui teme esposti i suoi valori in un’Italia secolarizzata, a rimarcare soprattutto quanto la separa e quasi la contrappone allo spirito del tempo. Se così deve essere, così sia: saluteremo da laici l’eroe laico Piergiorgio Welby, e andremo avanti nella sua lotta, che adesso più che mai sentiamo nostra. Ma questo esito non era scritto. Anzi, era lecito sperare (spes contra spem) tutto il contrario. E cioè che la battaglia coerente, lucida e volutamente esemplare condotta da Piergiorgio Welby, riuscisse ad aprire - nella politica, nella medicina, nella cultura, nella società - una riflessione alta e approfondita; e la ricerca faticosa e appassionata di soluzioni condivise. Anche perché, come questo giornale ha cercato quotidianamente di testimoniare, la domanda che Welby ha rivolto e continua a rivolgere a tutti noi, e in primo luogo a chi esercita responsabilità politiche, non riguarda l’eutanasia, sulla quale soluzioni condivise sono evidentemente improponibili, ma, come ha ricordato giovedì il presidente Giorgio Napolitano nel suo messaggio alla signora Mina, «il problema della sofferenza estrema in caso di risorse a terapie che non possono garantire una ragionevole speranza di esito positivo». Risposte (a Welby, e anche al capo dello Stato) non ne sono arrivate. Continueremo a cercarle, senza timidezze e senza ipocrisia.P.S. C’è, diciamo così, freddezza, anche nell’Ulivo, verso i radicali che, nonostante stiano al governo, avrebbero esasperato, specie in questi ultimi, drammatici giorni, una vicenda già tragica. A noi viene solo da osservare che i radicali fanno i radicali. La sinistra, invece, non si sa bene cosa faccia.
From "Il Riformista", December 23, 2006

La grande illusione di Francesco Forte


Il progetto di manovra di finanza pubblica per il 2007 è inscrivibile fra i classici esempi di come si può praticare su larga scala l’illusione finanziaria. Ed è anche un caso, altrettanto classico, di manovra di stampo benesserista, secondo una concezione per cui la finanza pubblica è una macro variabile indipendente dall’economia di mercato, che può attuare equità ed efficienza, senza tenere conto degli effetti perversi sull’efficienza dell’eccesso di pressione fiscale delle redistribuzioni “sociali” e delle modifiche incerte e oscure.
Il presente saggio viene scritto quando ancora la manovra è in fase di limatura. Il ministro Padoa Schioppa sostiene che il bilancio del governo italiano si trovava in condizioni difficili e che egli ha dovuto operare in stato di necessità. E ciò in quanto il governo Berlusconi gli ha lasciato un sistema di entrate in disordine e carente. L’anemia del sistema tributario sarebbe derivata dal fatto che, facendo troppi condoni, le basi imponibili si sono erose. Per avallare la falsa tesi dell’emergenza finanziaria, il governo Prodi, poco dopo l’entrata in carica, ha fatto certificare il bilancio del 2006 da un’apposita commissione di verifica contabile. La commissione accertò che il bilancio del 2006 avrebbe avuto un deficit attorno al 4,4 del pil e non del 3,8 come da previsione del maggio. Questo risultato, ampiamente pubblicizzato, peraltro sottovalutava la dinamica delle entrate, allora chiaramente in crescita. E dipendeva da una dinamica della spesa che, invece, stava per andare fuori controllo rispetto ai parametri previsti. Non si trattò di una verifica per dare trasparenza al bilancio pubblico, ma di un messaggio di allarme, volto a creare una illusione finanziaria, per soddisfare le richieste delle forze politiche del nuovo governo, che volevano una dilatazione della spesa pubblica.
Ma la dinamica dei gettiti fiscali del 2006 è proseguita in modo da sopravanzare gli eccessi di spesa rispetto ai parametri stabiliti. E il deficit italiano nel 2006 (dati isae) si attesta attualmente sul 3,6 per cento del pil, al netto dell’onere di rimborsi iva dovuti ad una sentenza dell’Unione Europea, che ammette la detraibilità iva delle spese per autovetture detraibili per l’imposta sul reddito.
Addossando al 2006 tali rimborsi, dovuti a varie annate precedenti, per un importo pari all’1 per cento del pil, si è operata una nuova illusione finanziaria. Infatti questi rimborsi non sono stati ancora versati e non verranno, verosimilmente, pagati nel 2006, ma solo negli anni a venire, con molta gradualità.
Nel frattempo la perdita di gettito, a regime, viene più che recuperata, tramite la riduzione della quota di spesa per autovetture detraibile nelle imposte dirette e quindi nell’iva. Questi rimborsi sono addossati contabilmente al 2006, allo scopo di far apparire un deficit di partenza di 4,6 per cento del pil, in luogo di quello vero di 3,6.
Così si nasconde il fatto che le entrate erariali sono aumentate, sino a tutto il settembre 2006, di 20 miliardi di introiti permanenti, più 4 una tantum. Da ciò si può desumere che i condoni non hanno affatto eroso il gettito. Hanno aiutato a far emergere il sommerso. E le riduzioni di aliquote hanno favorito la crescita del gettito, assieme e più di quella dell’economia. Buona anche l’eredità del bilancio di cassa, che ha un andamento molto migliore di quello del 2005: e, finalmente, vicino al deficit di competenza.
Partendo da queste basi il ministro dell’Economia, con un moderato contenimento delle spese, poteva evitare la grandine di nuovi oneri fiscali e parafiscali. Avrebbe anche dovuto evitare di far passare come introito del decreto Bersani-Visco i 6 miliardi di gettito del 2006 che vengono targati come introiti per “lotta all’evasione”, derivanti dai maggiori controlli e recuperi di imponibili: un cosiddetto “bonus Visco”. E vanno invece attribuiti alla politica del precedente governo. Dato che nelle imposte dirette e nell’irap opera la draga fiscale, che genera una crescita automatica delle entrate, connessa al tasso di inflazione e al tasso di crescita del pil, sarebbe bastata, per il 2007, una manovra di 6 miliardi di euro, pari allo 0,45 del pil. Invece Tommaso Padoa Schioppa ha varato una gigantesca manovra di 33 miliardi, quasi tutta sbilanciata sul lato delle entrate. Essa genera una crescita di pressione fiscale attorno all’1,8 per cento del pil con effetti negativi sulla sua crescita e dà luogo a redistribuzioni che non appaiono favorevoli, ma obbediscono a un antiquato disegno giustizialista. In luogo di questa maxi-manovra, sarebbe stato meglio che il governo si fosse dedicato a una azione di modifica strutturale dello stato del benessere e della pubblica amministrazione e avesse proseguito la politica delle semplificazioni delle procedure amministrative, anziché accrescerle.
La base per la dimostrazione di quel che asserisco è la grottesca tabella riassuntiva ufficiale, secondo cui una manovra, che è quasi tutta svolta nel campo delle entrate, diventa una manovra svolta in grande prevalenza nella riduzione delle spese.
Tavola che riproduco, con piccoli cambiamenti formali.

Tavola 1 - manovra ufficiale di finanza pubblica 2007
(miliardi di euro)
Maggiori entrate 13,000 Minori spese 20,400 di cui- razionalizzazione della PA 2,830 - patto di stabilità interno 4,300- sanità 3,000- previdenza 5,265- fondo Tfr 5,000Totale reperimento mezzi finanziari 33,400per cento entrate 38,92per cento spese 61,87
Riduzione di Imposte: cuneo fiscale 5,600Interventi vari 13,100Saldo netto 14,800
A fronte del contenimento delle spese del “Patto di stabilità interno” vi è l’aumento fiscale degli enti locali tramite ici, addizionale irpef e aumento dell’irap. La facoltà di procedere alla rivalutazione delle rendite catastali dà ai comuni una grossa leva fiscale. Gli enti locali prevedibilmente aumenteranno le loro entrate almeno di 4 miliardi.
Per quanto riguarda la sanità non è affatto vero che vi è una riduzione di 3 miliardi rispetto alla competenza del 2006. Si tratta di una riduzione apparente, perché il Fondo sanitario nazionale passa da 90 a 99 miliardi, con un aumento del 10 per cento.
Evidentemente il ministro Padoa Schioppa non contesta lo sfioramento a 100 miliardi che vi è stato. Le Regioni ne pretendono 103 e la somma è stata “ridotta” a circa 100. Si tratta di un ragionamento anomalo, perché comporta di attribuire la natura di “andamento tendenziale” a un comportamento che riguarda una spesa in eccesso a un fondo statale prestabilito. Una non indifferente acrobazia contabile. I 5,265 miliardi di risparmi di spesa della “previdenza” non sono minori spese del governo, ma minori fondi che dà all’inps, rispetto alla dinamica tendenziale della sua spesa, in contropartita di maggiori contributi sociali su lavoratori autonomi e atipici. Si tratta, dunque, di entrate parafiscali.
Analogo ragionamento vale per l’attribuzione all’inps del 50 per cento del tfr non utilizzato per la previdenza integrativa. Si tratta di una entrata coattiva, peraltro una tantum.
Possiamo ora fare la somma delle maggiori entrate di cui alla manovra di finanza pubblica:

Tavola 2 - maggiori entrate vere della manovra di finanza pubblica del 2007
(miliardi di euro)
Maggiori entrate ufficiali 13,000Entrate tributarie enti locali 4,000Contributi sociali 5,265Prelievo obbligatorio Tfr 5,000
Totale 27,265

Tavola 3 - riduzioni vere di spese della manovra di finanza pubblica
(miliardi di euro)
Razionalizzazione PA 2,830Enti locali 300Totale 3,130

La manovra non è di 33,400 miliardi, ma di poco di più di 30 e non è, come dalla tabella ufficiale, in gran parte sul lato delle spese, ma quasi tutta sul lato delle entrate (Tavola 4).
Tavola 4 - vera entità e composizione della manovra di finanza pubblica per il 2007
(miliardi di euro)
Maggiori entrate 27,265Minori spese 3,130
Totale 30,400per cento entrate 89,76per cento spese 10,24
Ma occorre considerare la destinazione dei fondi. Una parte va a ridurre il cuneo fiscale del costo del lavoro. Tale riduzione vale 3,8 miliardi. Il resto sono erogazioni sociali per assegni familiari. Sicché le maggiori entrate di questa manovra primaria scendono a 23,5 miliardi. Ci sono anche “interventi vari” per 13,1 miliardi che il ministro dell’Economia non osa denominare spese ma che, non essendo riduzioni di imposte, sono maggiori spese, che vanno sommate algebricamente alle minori spese di cui alla manovra primaria. Nella manovra effettiva, dunque, non ci sono minori spese, ma un aumento di 10 miliardi. Una maldestra illusione finanziaria (Tavola 5).

Tavola 5 - Manovra complessiva netta vera
(miliardi di euro)
Maggiori entrate + 27,265Riduzioni di entrate - 3,800Saldo netto delle entrate + 23,400Minori spese + 3,100Aumenti di spese - 13,100Saldo netto delle spese - 10,000Saldo della manovraMaggiori entrate + 23,400Maggiori spese -10,000
Totale netto a riduzione del deficit 13,400
Ma 9 miliardi occulti di maggiore spesa del fondo sanitario sono stati nascosti nelle pieghe del bilancio, facendo riferimento non a quello dello scorso anno, ma a un immaginario tendenziale del fondo medesimo. È ragionevole ritenere che la crescita del Fondo sanitario potesse essere del 4 per cento, per tener conto del tasso di inflazione e della crescita del pil. Quindi possiamo detrarre 3,6 miliardi dai 9 occultati. Ma alle Regioni vengono assegnate entrate per ticket sanitari di circa 2,6 miliardi. Dunque le maggiori entrate, contando i ticket sanitari, sono ora 23.400 + 2.600 = 26 miliardi di euro. La manovra di “risanamento dei conti della finanza pubblica”, depurata dei trucchi estetici, consiste di 13, 4 miliardi meno 8, ossia di 5,4 miliardi.

Tavola 6
(miliardi di euro)
Maggiori entrate 26.000
Maggiori spese 20,4
Riduzione deficit 5,6

Non vi è nulla di strano in ciò. Considerato che il boom delle entrate del 2006 si è tradotto in un beneficio di 1 punto di pil, la linea base per il bilancio 2007 è del 3,6 per cento del pil. Dato poi alterato con una illusione finanziaria di natura contabile, mediante l’addebito al 2006 degli effetti della sentenza comunitaria sul rimborso dell’iva: che fa supporre che la linea base non sia 3,6 del pil ma 4,6.
Il ministro dell’Economia, oltre al modesto compito di rientro dal deficit del 2006, per il quale ha messo in atto la sceneggiata della maxi-manovra che si riduce ad uno 0,4 di correzione di pil, ha provveduto all’impegno di finanziare la riduzione del cuneo fiscale, cioè di realizzare una fiscalizzazione di oneri sociali impropri. Esso era, nei progetti, di ampia portata, doveva riguardare 5 punti di contributi, per 12 miliardi di euro. Si è ridotto a 3,8. Tuttavia, assieme a questa operazione, si avocano all’inps 5 miliardi di tfr delle imprese. Dal punto di vista delle regole di bilancio per la Comunità europea si poteva opinare che l’avocazione all’inps del tfr non utilizzato per la previdenza integrativa non fosse un introito effettivo ma un mero prestito: tale essendo la natura del tfr nel bilancio delle imprese. Qui vale però il famoso detto “ego te baptizo carpam” con cui un prevosto goloso stabilì che il pollo ruspante che mangiava di venerdì non violasse la regola del digiuno, in quanto lui lo denominava come “pesce”. Denominando “contributo previdenziale” la quota di tfr non utilizzata dalle imprese, devoluta all’inps, questo prestito a favore delle imprese, per il bilancio dell’inps diventa una entrata parafiscale. Di fatto, comunque, questo è un fondo permanente che l’inps ottiene, in quanto man mano che le indennità di fine rapporto vengono erogate, vengono versati nuovi contributi per finanziarle in futuro, di importo almeno eguale e forse maggiore. Peraltro questa avocazione forzosa all’inps di tfr accantonati presso le imprese è incostituzionale, in quanto si tratta di un esproprio di depositi finanziari delle imprese, a favore di un soggetto pubblico senza indennizzo, in violazione dell’articolo 43 della Costituzione. Un piccolo mostro finanziario.
Nella manovra vi sono operazioni di redistribuzione come quella dell’irpef che contraddicono la strategia di lotta all’evasione fiscale: non è ragionevole pretendere che i contribuenti riducano i loro comportamenti di evasione ed elusione fiscale mentre vengono aumentate le aliquote a loro carico. E vi sono risibili operazioni “manifesto” di tipo giustizialista come la tassazione speciale dei Suv, voluta da Legambiente, che penalizza una categoria di veicoli. Una politica fiscale da bar che elude il grosso tema strutturale della tassazione automobilistica in rapporto all’uso delle strade, alla congestione e all’inquinamento. Un’altra operazione “manifesto” che invece combina il giustizialismo con il danno all’economia è quella della reintroduzione della tassazione delle successioni. Inizialmente lo si è fatto con una imposta di registro sull’asse ereditario (la cosiddetta “imposta sul morto”) applicata non solo alle cessioni di immobili mortis causa e per donazione, ma anche ai patrimoni mobiliari. Ciò secondo un inedito principio di iscrizione nei registri immobiliari, dei beni mobili e dei prodotti finanziari. Ed ora si vuol attuare una riedizione attenuata dell’imposta di successione abrogata dal governo Berlusconi: che rendeva un miliardo di gettito, perché pochi, fra gli abbienti, la pagavano. Il nuovo tributo, che graverebbe solo sui patrimoni dei “ricchi”, intendendo come tali quelli che lasciano almeno un miliardo, darebbe per altro, 150 milioni di gettito. Probabilmente meno del costo per riscuoterlo. Presumibilmente ciò perché i ricchi e molti altri eluderanno il tributo. Nel frattempo, tutto ciò, con i suoi effetti psicologici, arricchisce gli investimenti nelle banche svizzere.
Di un governo che partito lancia in resta con la bandiera delle liberalizzazioni, ora ripiega sulla statizzazione dei finanziamenti previdenziali privati, sulla tassa sui Suv, sull’imposta di successione sui “ricchi” che rende 150 milioni l’anno, che dire? Forse, però, si tratta del festival dell’economia di Trento.
From "RightNation.it"

Napolitano non ha parlato a caso


La critica del presidente della Repubblica alle procedure seguite per l’approvazione della Finanziaria è netta e precisa, com’è nello stile di un politico che ha molti difetti ma ha sempre disdegnato le fumisterie. Non è un appoggio alla campagna interessata che, peraltro legittimamente, conduce l’opposizione. E’ un allarme per il funzionamento dei meccanismi democratici, che vengono beffati da espedienti che, col tempo e per responsabilità di tutti, sono cresciuti su se stessi e hanno ormai raggiunto il limite dell’intollerabilità. L’istituzione della sessione di bilancio doveva, nelle intenzioni originarie, fornire al governo un passaggio privilegiato per far approvare le linee fondamentali della sua politica economica, e al Parlamento lo spazio necessario per una discussione approfondita. Quello che è capitato concretamente, come da anni andiamo sostenendo su queste colonne, è l’esatto contrario. Sull’omnibus della legge finanziaria è stato caricato di tutto, perfino merce avariata di cui nessuno, né nel governo né nella maggioranza, riconosce la paternità. Non sono le linee di politica economica fondamentali a essere approvate, ma una nebulosa di provvedimenti specifici, talora introdotti più o meno surrettiziamente nell’emendamento finale onnicomprensivo che nessuno ha letto prima che fosse approvato. In Parlamento, d’altra parte, né la maggioranza né l’opposizione hanno potuto discutere seriamente, perché nuove norme continuavano a uscire a ripetizione. L’ostruzionismo denunciato come pretesto del ricorso alla fiducia non c’è stato perché non c’è mai stato un testo definitivo cui opporsi. Napolitano ha indicato la strada da seguire per riportare alla fisiologia del confronto democratico meccanismi ormai sfuggiti di mano anche dal punto di vista costituzionale. Ogni articolo di legge deve essere discusso e votato singolarmente, dice la carta. Questo indurrebbe i governi a non presentare più provvedimenti fiume, per giunta con andamento carsico, limitandosi all’essenziale, e metterebbe il Parlamento in grado di capire su che cosa si vota. Sta in questo il valore del monito presidenziale. Non si limita a evocare i problemi, enuncia anche i modi per risolverli. Non invade lo spazio del legislatore, lo difende da meccanismi perversi che lo stanno riducendo a pura formalità. Per questo il messaggio non va strumentalizzato, deve invece essere realizzato, per evitare che l’anno prossimo si torni da capo a dodici.
From "Il Foglio", December 22, 2006

L'ultima di Caretto di Christian Rocca


Oggi scrive un pezzo per raccontare come, parole sue, "teocon" e "neocon" siano contrari alla candidatura di Rudy Giuliani alla Casa Bianca. I neocon contro Giuliani?!? Una parte importante dei neocon – sempre ammesso che esistano – sta con Giuliani apertamente e dichiaratamente. Norman Podhoretz, uno dei due grandi vecchi del movimento, è schierato apertamente a favore di Giuliani. Suo figlio John, editorialista del NY Post e critico del Weekly Standard, ha addirittura scritto un libro per spiegare che solo Giuliani può battere Hillary. Io ne conosco almeno un altro paio che stanno con Giuliani, gli altri di cui so stanno con McCain (e guardano con attenzione a Mitt Romney), ma sono certo che se tra i due dovesse prevalere Giuliani si schiereranno con lui. Al solito, Caretto non sa chi siano i neocon e ora fa pure confusione con i "teocon" che, a parte scriversi con l’h (“theocon”) non sono quelli di cui parla lui. I theocon in America sono un gruppo ben definito di cattolici ex di sinistra, diventati conservatori, e rintracciabili nella misconosciuta rivista Firts Thing. Sono 4 in totale, Novak, Neuhaus, Weigel. Forse sono tre. Non sono gli evangelici, non c'entrano nulla. Mamma mia.
From "Camillo", December 20, 2006

Sullo sciopero dei giornalisti


Non è uscito il Corriere, per cui non si sa su cosa stia riflettendo in queste ore Beppe Severgnini. Non è uscita Repubblica, e a chi possa affidare Gianni De Gennaro quella roba forte che domani gli scade, visto che non può affidarla né a Bonini né a D’Avanzo, non si sa. Non è uscito il Sole 24 Ore, ciò che priva del piacere di sapere come si possano tenere insieme il dovere del presidente di Confindustria di possedere un carattere robusto e il fatto che ad avere il carattere robusto toccherebbe ’stavolta a Luca Cordero di Montezemolo. Non è uscita la Stampa, la qual cosa impedisce ai lettori di leggere tra le righe quanto poco freghi al suo direttore Giulio Anselmi di fottere a Paolo Mieli la poltrona di direttore del Corriere. Non sono in edicola nemmeno il Tirreno, il Secolo XIX, il Giornale di Sicilia, né il Gazzettino di Venezia e tutto ciò già rappresenta uno scacco per la democrazia che ha nell’informazione uno dei suoi pilastri. Ma la cosa più intollerabile è che non esca il Messaggero, mentre il Giornale sì. Perché vuol dire che agli attacchi incessanti dell’editore fratello, Pier Ferdinando Casini non potrà opporre le risposte dell’editore fidanzata.
From "Il Foglio", December 22, 2006

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